All’origine
del “genere” un autore che provò un umano terrore e costruì le sbarre della
propria prigione
Agli albori del poliziesco
c’è un racconto pubblicato a Filadelfia, città elettiva della Dichiarazione
d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America. Un giornalista trentaduenne,
originario di Boston, alcolizzato, indebitato e in precarie condizioni di salute,
Edgar Allan Poe, pensa di aprire una sua rivista letteraria ma per il momento
resta un sogno. Sbarca il lunario presso le redazioni del Lady’s and
Gentleman’s e del Graham’s Magazine. Nel 1841 gli viene in mente una
short story che costituisce l’atto di nascita del genere.
Parigi. L’appartamento al
quarto piano di una palazzina in “rue Morgue” è chiuso dall’interno, la chiave
nella toppa. Dentro ci sono segni di un grande disordine, mobili distrutti,
preziosi sparsi, sul pavimento un rasoio sporco di sangue. Le due inquiline
hanno fatto una brutta fine. Il corpo di Mademoiselle L’Espanaye è stato spinto
con violenza nella canna fumaria del camino. Il cadavere della madre, Madame
L’Espanaye, giace nel cortile sul retro del palazzo, la gola tagliata di netto.
Ma il vero arcano, che lascia sbigottita la polizia, è che nessuno può aver
compiuto il duplice omicidio ed essere uscito da un appartamento perfettamente
sigillato, a meno che non si tratti di un fantasma. Monsieur Auguste Dupin,
giovane gentiluomo caduto in disgrazia, bibliofilo e sottile analista, ottiene
dalla polizia il permesso di indagare. L’attitudine alla logica lo conduce a
una serrata inchiesta.
«Gli autori
dell’assassinio erano esseri materiali, e sono altrettanto materialmente
fuggiti. – ricostruisce Dupin. – Ma come? Per fortuna c’è un solo ragionamento
possibile in proposito. Un solo metodo che ci deve condurre a una
conclusione esplicita. Esaminiamo uno per uno i possibili modi di fuga. (…)
Dimostrata l’impossibilità di fuggire almeno per le vie succitate ci restano da
esaminare le finestre. Nessuno poteva fuggire da quella che si affaccia sulla
strada senza essere visto dalla folla radunata fuori. Gli assassini devono
essere scappati da quella posteriore. Ora, essendo obbligati ad accettare
questa conclusione in forza di ragioni irrefutabili, non abbiamo il diritto di
respingerla per la sua apparente impossibilità. Dobbiamo perciò dimostrare che
questa “impossibilità” non esiste».
Dupin scopre che una
finestra ha i telai bloccati. Si richiudono da soli con delle molle nascoste.
Identificata la via di fuga, stabilisce che l’assassino è un individuo
dall’agilità sovrumana e scarta l’idea che possa essere un ladro. I gioielli
sono tutti presenti in casa. Il ritrovamento di peli non comuni e la presenza
sulla vittima di impronte non umane, associate alla ferocia bestiale del
massacro e alla mancanza di un movente, permettono a Dupin di identificare il
colpevole. Un orangutàn dell’India Orientale, scappato dal suo proprietario
proprio quella mattina, come ci informa il trafilo di cronaca di un
giornale!
Con I delitti della rue Morgue lo
scrittore di Boston recupera la produzione romanzesca dell’Ottocento, ma sente
l’esigenza di rinnovamento nel travaso in una forma espressiva diversa. Il
filone gotico, fondato sull’enfasi nel descrivere il terrificante, la presenza
di personaggi stereotipati, antichi manieri e atmosfere torbide, è un fenomeno
editoriale proliferato sino all’inflazione. La strategia di Poe è ardita:
depurare il gotico dai richiami del fantastico e del macabro, rinunciare al
soprannaturale, travasare il mistero dentro gabbie realistiche e giocare forte
sull’elemento sensazionale. La sua ansia di sperimentatore è esplicitata in una
lunga prefazione, che inizia così: «Non ho intenzione di scrivere un trattato
di analisi, voglio solo premettere a un singolare racconto alcune osservazioni
alla buona». Poe si rivolge al pubblico che seguiva le storie di spettri e di
eroine terrorizzate per rimpiazzare un genere ormai vecchio. Lavora con una
nuova tecnica affabulatoria per legare il lettore alla vicenda e dipanare il
racconto con specifiche sospensioni, proprie del nascente poliziesco.
«Il colpo di genio di Poe, fondatore del
genere, è di aver capito che il ragionamento in quanto tale, ovvero la
successione di deduzioni e induzioni, possedeva da solo un interesse drammatico
che poteva diventare l’essenziale della storia».[1]
La curiosità del lettore è
generata dalla presentazione di un enigma da risolvere. Quel sottile piacere
che si prova davanti a un rebus, come ammette lo stesso Poe, in cui sono
impiegati talento e acume. Chi è il colpevole? Il giocattolo della tensione
riposa sulla domanda che chiama in causa le capacità del lettore di prevedere
la conclusione e lo coinvolge nella sua apprensione conoscitiva. Il nodo da
sciogliere sostiene l’intera narrazione. Lo scrittore non può falsare i fatti o
introdurre elementi estranei, solo per sviare il lettore, ma mantiene una fitta
impenetrabilità. «Non c’è racconto degno di questo nome se dalla prima parola
non suscita l’interesse del lettore che deve giungere all’ultimo rigo per comprendere
la soluzione finale.», dice Baudelaire, traduttore di Poe in Francia.
L’attenzione rivolta alla
macchina narrativa fa trascurare al suo autore la costruzione dei personaggi,
fugaci e sommari, pure funzioni letterarie, che esistono in virtù dell’intreccio.
L’enigma de I delitti della rue Morgue si rivela banale e deludente.
L’assassino non appartiene alla specie umana: è una scimmia capace di
arrampicarsi al terzo piano, balzare nell’appartamento, fare scempio di due
donne e andarsene indisturbato. La scoperta dello scimmione omicida non
risarcisce le nostre aspettative, è un’irruzione pretestuosa di qualcosa che
non segue la logica umana. Ma il vero antagonista di Dupin è il mistero tout court, nella sua ontologica
essenza. Per cui non importa che sia cancellato il fattore emotivo dalla
conclusione.
I fratelli Goncourt
annotano a proposito: «Le cose vi hanno una parte maggiore degli uomini;
l’amore cede il posto alle deduzioni e ad altre fonti di idee, di frasi, di
interesse; la base del romanzo è spostata e trasportata dal cuore alla testa e
dalla passione alle idee, dal dramma alla soluzione».
Attraverso i racconti La
lettera rubata e Il mistero di Marie Roget, Dupin risolve i suoi
casi risolti col consueto sfoggio di talento. E Poe non cessa di esaltare
l’analisi, distinguendola dal calcolo e dall’ingegnosità, e mostra l’assoluta
certezza che la mente umana possa affrontare con successo tutti i problemi che
si presentano. Non è un caso che in quegli anni in Pennsylvania cresca
l’industria, proliferino i giornali sensazionalistici, la matematica muova i
primi passi come disciplina autonoma e il positivismo renda centrale il valore
dei procedimenti logici e l’osservazione analitica della realtà. Nel racconto Lo
scarabeo d’oro, il protagonista, dopo aver decifrato un messaggio criptato,
fa una riflessione che è un atto di fede: «Dubito che l’ingegno umano possa
costruire un enigma che l’ingegno umano, applicandosi a fondo, non sappia
risolvere».
Un’esaltazione della
potenza umana? Non prendiamo certe dichiarazioni alla lettera, e non facciamoci
ingannare dalla promessa di intenti. Dupin smaschera l’assassino perché è la
sua ombra, la sua parte malata, e lui si specchia nel criminale. Il colpevole
de I delitti della rue Morgue è la Grande Scimmia, e Dupin risale alla
sua identità calandosi nella natura animale, decifrando il suo comportamento
bestiale. D’altronde, la ratio
dell’investigatore rappresenta sì l’eccezionalità dell’individuo, ma anche una
luce solitaria e flebile in un universo dominato dal prodigioso, dalla violenza
e dalla passione. A ben guardare Dupin si pone al bivio tra romanticismo e
modernità. Con la sua eccentrica solitudine, è imparentabile ai personaggi
pessimisti di Hawtorne e Melville. Per paradosso Dupin è un “sillogismo personificato”,
capace di vivere solo in quanto operazione intellettuale. Ha il mero statuto di
uno spettatore, sia pure geniale. La sua purezza disincarnata è una
sopravvivenza narcisistica in una civiltà che sta agonizzando, un estremo
baluardo contro la dissociazione del mondo. Per dirla con le parole di un
critico, Dupin «porta una fiaccola da antro gotico, un lumicino cimiteriale:
lucette accese nel paesaggio byroniano che lo circonda».
Sul piano squisitamente
letterario lo scrittore americano anticipa le caratteristiche future del
giallo. Come scrive Jorge Luis Borges, che non sarà tenero con Poe, il suo
primo racconto «stabilisce le leggi fondamentali del genere: il delitto
enigmatico e a prima vista insolubile, l’investigatore solitario che lo svela
mediante l’immaginazione e la logica, il caso riferito da un amico impersonale
e alquanto slavato dell’investigatore».
Recenti studi sulle forme
letterarie di massa ascrivono agli albori del giallo calcoli commerciali e
finalità di consumo, senza togliere nulla ad esso, anzi sottolineandone il
carattere di novità. La diffusione dei racconti di Poe tra fasce larghe della
società si pone contro l’acculturazione di elite del New England e di Richmond,
capitali della cultura ufficiale. Oggi si direbbe che gli scritti del detective
Dupin e quelli “dell’orrore” si muovano in un mercato editoriale che tiene
conto del destinatario e del packaging,
attraverso una distribuzione tra Filadelfia e New York. Come nota Barbara
Lanati «le riviste su cui Poe e tanti altri scrivono diventano la rete di
comunicazione privilegiata, creata ovviamente dall’industria culturale che si
organizza, che fa da medium, ma allo
stesso tempo detta legge. Le riviste formano una struttura tentacolare che non
“vuole sorprese”, che esige, in cambio dello spazio che dà, di poter dare un
volto al lettore e di conseguenza la volontà di consumare e acquistare quanto
gli è offerto».
Forse perché proveniente
dal giornalismo, non solo Poe è il primo a puntare sull’ampia circolazione del
prodotto e sui suoi fruitori; è anche il primo a capire che l’invenzione
letteraria è il risultato di processi mentali bene individuabili. La
consapevolezza tecnica lo porta a considerare l’arte come una perfetta scienza
della costruzione, frutto della mente e non dello spirito. Affermazione che
nell’ambiente delle lettere suona scandalosa, una bestemmia, se molti anni dopo
uno del calibro di Hemingway afferma categorico che la storia si inventa mano a
mano che si procede senza conoscerne lo sviluppo. Invece Poe ci spiega che un
intreccio va costruito partendo dalla fine, e non dall’inizio, parla di «unità
del disegno» e prefigura una struttura piramidale subordinata ad un climax.
Nel momento in cui l’autore conosce il punto di arrivo, che costituisce la
tappa fondamentale del suo lavoro, imposterà a ritroso le direzioni di marcia,
immaginerà in progressione gli avvenimenti intermedi e si adopererà per
ottenere l’effetto drammatico desiderato. Un racconto viene scritto “alla
rovescia”. Solo così avrà una sua coerenza interna e raggiungerà una sua
efficacia. Prima di mettersi a scrivere, l’autore conosce tutti gli elementi
dell’enigma e il suo scioglimento. Quando ha presente la rete di relazioni che
formano l’intreccio passerà a disporle in un ordine preciso. E che questo sia il
sistema migliore ce lo conferma Umberto Eco, noto semiologo e poi provetto
giallista, quando scrive «occorre crearsi delle costrizioni, per poter
inventare liberamente».
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