

Partiamo dal tuo eroe, Aldo
Morosini, il protagonista di “Le rose di Axum” e dei romanzi coloniali
che l’hanno preceduto. Che rapporto ha Morosini, un ufficiale della Benemerita,
con il Regime e con la retorica imperialista?
E’ noto che l’Arma dei carabinieri era prevalentemente monarchica
e non troppo vicina al fascismo. Nel caso del “mio” Morosini il rapporto è
ambivalente: essendo militare e provenendo da una famiglia di militari è
abituato ad avere il massimo rispetto per le istituzioni e, a metà degli Anni
Trenta, di certo apprezza il nuovo ruolo internazionale dell’Italia, una certa
spinta propulsiva del regime, il grande dinamismo per “civilizzare” le colonie.
Però non amando la politica né la retorica ed essendo in buona sostanza un
individualista, di certo non si entusiasma per gli aspetti più esteriori del
fascismo.
Ne “Le rose di Axum” c’è
grande spazio per il mondo dell’occulto. Cosa ne pensi di questa riscoperta da
parte di molti scrittori italiani e stranieri di leggende e superstizioni, di
elementi paranormali e mitologici?
Non direi che ne “Le rose di Axum” c’è grande spazio a questi temi,
se ne parla ma sempre riconducendoli nell’ambito della politica, nella
fattispecie agli studi archeologici, culturali e filosofici condotti dalle
società più o meno segrete del Terzo Reich, come la Società di Thule, alla
ricerca dell’identità originaria ariana. Ad essere sincero non è un tema che
sento molto nelle mie corde: a livello editoriale noto un grande sfruttamento
di tutto ciò che riguarda occulto, sette, esoterismo e religioni misteriose, ma
è un fenomeno che non mi entusiasma. E credo che dietro ci sia molto marketing.
Proviamo a entrare nel laboratorio dello scrittore. Come procedi nella costruzione del
romanzo? Che importanza ha la scaletta? Quali sono i segreti per elaborare una
buona trama gialla? Quante versioni hai steso di “Le rose di Axum”?
Queste sono domande complesse e molto indiscrete! Anche perché
mettono a nudo la mia scarsa metodicità, che forse dovrei correggere. A
differenza di tanti altri scrittori non mi preparo una scaletta, né butto giù
una trama preventiva sulla quale costruire poi il romanzo. Finora mi è sempre
successo di avere in testa la trama, molto esile, appena un abbozzo o se vuoi
uno scheletro del romanzo. E di lì parto, dopo essermi documentato. Di solito
le idee mi vengono strada facendo e la trama prende sempre più corpo man mano
che procedo. Naturalmente non avendo una scaletta vado avanti un po’ a
tentativi, spesso la trama svolta in modo imprevisto, un personaggio prende più
spazio di quanto avevo immaginato, lo svolgimento della narrazione si modifica
e talvolta il finale non è proprio quello che avevo pensato all’inizio. Direi
che il mio è sempre un work in progress. Non saprei spiegare il perché di
questo metodo di lavoro, è successo così con il primo romanzo (“Morire è un
attimo”, del 2008) e ho continuato a seguirlo con gli altri tre che ho
pubblicato sinora (e con quelli scritti ma non ancora pubblicati). Quindi non
esistono neppure delle versioni diverse del testo, anche se ogni volta che lo
rileggo finisco per cambiare qualcosa. Ma di solito piccoli particolari.
Come ti sei documentato
sulla parte storica del “ciclo coloniale”? Pensi che la storiografia ufficiale
abbia indagato a sufficienza sulle colonie italiane degli anni Trenta e
Quaranta o ci sono ancora parti oscure da raccontare sulla nostra avventura
coloniale?
Nei miei romanzi "coloniali" la documentazione è sempre
importante, perché in fin dei conti si tratta di gialli storici per i quali la
cornice e l'ambientazione è fondamentale. Per essere il più credibile
possibile, al di là dei classici libri di storia sul periodo fascista e sul
colonialismo ho dovuto usare testi dell'epoca, soprattutto di memorialistica,
alcuni libri di storia militare, e sono state utilissime le guide pubblicate
all'epoca dal Touring Club (allora Consociazione Turistica italiana) sulle
colonie africane. Grazie a questi testi ho potuto ricostruire con una certa
esattezza la topografia, i trasporti, le strutture ricettive e molti altri
aspetti della vita quotidiana che sfuggono ai libri di storia. E poi è stato
importante consultare i giornali dell'epoca (di recente La Stampa, dove lavoro,
ha messo online il suo archivio storico, facilitando di gran lunga la ricerca)
e molti siti internet di storia politica e militare.
Quanto alla seconda parte della domanda, credo che la storiografia
ufficiale abbia indagato poco il fenomeno coloniale e soprattutto a senso
unico, cioè facendone tutt'uno con il fascismo. Anche se è vero che il maggior
impulso alle colonie venne dato da Mussolini negli anni Trenta, il colonialismo
italiano in realtà comincia alla fine dell'Ottocento e nel suo complesso dura
per circa 50 anni, cioè un terzo della storia unitaria.
Guarda, non è una posa letteraria dire che ormai Morosini è un po'
parte di me. A tutti gli effetti la narrazione delle sue indagini occupa alcune
ore della mia giornata, magari non tutti i giorni dell'anno, ma buona parte.
Quindi per forza di cose si è creata una forte empatia con il personaggio, al
quale ovviamente presto di tanto in tanto le mie riflessioni e i miei pensieri,
pur non essendo il mio alter ego. A me è venuto spontaneo dare un seguito al primo
romanzo in cui compare Morosini, perché una volta finito "Morire è un
attimo" già pensavo a nuove avventure del maggiore. Senza contare che
molti lettori mi hanno chiesto fin da subito di far diventare Morosini
protagonista di un vero ciclo di romanzi gialli. E' stata una gratificazione,
lo confesso. E devo dire che la serialità ha anche una sua efficacia
editoriale, non a caso molti editori, specie in campo giallo-noir, spingono per
avere personaggi seriali. Si crea quel rapporto di confidenza e intimità con il
lettore, che ha piacere di ritrovare i protagonisti e gli ambienti anche nei
libri successivi. Il rovescio della medaglia, a voler fare i pignoli, è che la
serialità è una "gabbia" che rinchiude la narrazione entro i limiti
già prefissati dai precedenti romanzi.
Molti critici italiani si
sono schierati contro la letteratura di genere perché troppo popolare e
“bassa”. Non pensi che ci siano steccati troppo rigidi tra letteratura di
evasione e letteratura impegnata?
Si potrebbe chiudere il discorso con una battuta, tipo che i
critici letterari, come dice qualcuno, sono scrittori mancati. Ma non sarebbe
giusto. Da lettore do un certo peso alla critica, quando si tratta di scegliere
un libro da acquistare. Ma poi prevalgono sempre altre motivazioni, in primo
luogo se la storia che leggo nella quarta di copertina mi "attira"
oppure no. Credo che sia questa la molla principale, almeno per me. Sempre da
lettore ritengo che un romanzo debba divertire, emozionare e se possibile
ampliare le mie conoscenze e la mia visione del mondo. A patto che risponda a
questi requisiti, mi interessa ben poco che i critici lo incasellino nella
letteratura alta piuttosto che in quella di genere. Se uno scrittore è noioso,
potrà volare altissimo ma sempre noioso rimane. Viceversa uno scrittore che sa
colpire il cuore del lettore lo farà sia parlando di filosofia che scrivendo un
giallo o un horror. Ho letto e continuo a leggere grandi scrittori che
considero "alti" ma anche molto piacevoli (un nome per tutti, il
premio Nobel Vargas Lllosa); ma nella mia vita mi sono anche imbattuto in
autori di genere che non avevano nulla da invidiar loro: vogliamo parlare di
Simenon? Di Vazquez Montalbàn? Di Mankell?
Quali sono gli scrittori
che hai letto nei tuoi anni di formazione e quelli che più ti hanno
influenzato?
Da adolescente i romanzi d'avventura, in particolare Salgari.
Affiancati da molti fumetti: Tex, Mister No, Corto Maltese. Poi ai tempi del
liceo parecchi classici latini e greci, che mi hanno insegnato l'importanza
dell'epica; e il Simenon dei romanzi di Maigret, che per me rappresentano il
top della narrativa gialla: letti con gli occhi di adesso magari ti accorgi che
alcuni erano buttati giù in modo un po' frettoloso, ma nel complesso restano un
esempio di trama, sintesi, stile. Poi ho letto molto i sudamericani anni
Sessanta, Settanta e Ottanta (Amado, Vargas Llosa, Garcia Màrquez, Mutis,
Soriano), americani come Bukowski, Fante, McCarthy e per tornare al genere
giallo-noir i grandi dell'hard-boiled (Chandler, Hammett, Spillane, McBain), il
nostro Scerbanenco e soprattutto il noir-mediterraneo: Vazquez Montalbàn, Izzo,
Gimenez Bartlett, Markaris. E poi il già citato Mankell, che giudico superiore
a tutto il filone scandinavo molto in voga negli ultimi anni.
Che significa per uno
scrittore arrivare a possedere un proprio stile?
Credo siano pochi gli autori di cui si può dire con assoluta
certezza: “Ha uno stile inconfondibile”. Così di primo acchito mi vengono in
mente personaggi come Guareschi, Simenon, Bukowski, Céline, Gadda, Buzzati.
Quanto meno se parliamo di stile di scrittura in senso stretto. Se invece
andiamo al di là delle sole parole scritte ed estendiamo il concetto
all’atmosfera che si riesce a creare, agli ambienti che vengono ricostruiti,
alla psicologia dei personaggi; allora penso sia importante anche per un autore
“piccolo” avere una propria specificità, una sorta di marchio di fabbrica, con
pregi e difetti. A me, sinceramente, non piace quell’uniformità stilistica un
po’ piaciona, come dite a Roma, che va tanto di moda nelle scuole di scrittura
creativa. Sono dell’idea che lo stile di uno scrittore debba riflettere la sua
vita, la sua cultura, i suoi rancori, i suoi difetti. Per usare un parolone la
sua weltanschauung, a costo di non piacere a tutti o di essere attaccati dalla
critica. Ricordo che proprio Giovanni Guareschi veniva criticato, oltre che per
ragioni politiche, proprio a causa del suo stile “povero” e del vocabolario
limitato e popolare che usava nei romanzi di Don Camillo. Però Guareschi sapeva
emozionare, non a caso i suoi romanzi sono diventati best-seller, sono stati
tradotti in tutto il mondo, sono diventati sceneggiature di film di successo e
vengono letti ancor oggi.
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