Un uomo consegnato ad un destino di devianza e riscattato dall’esercizio della scrittura. Il milanese Bruno Brancher moriva alla fine di novembre di due anni fa. Ha campato con furtarelli e rapine ed è finito tante volte in carcere, ma mai si è rassegnato ad una “esistenza somara” e ha scritto racconti memorabili con cui ci piace ricordarlo.

“Io amo il vigliacco perché è la persona
più sincera che ci sia. Il vigliacco non è un prepotente e non lancia mai
minacce o insulti. Il vigliacco colpisce solo se viene a sua volta colpito o
offeso. Il vigliacco è molto intelligente. È un uomo riflessivo e calcolatore.
Il mio vigliacco ama, riamato, le donne. Quando il vigliacco si inquieta
sorride. Ma quando si arrabbia ride. Il vigliacco è una persona molto cortese
ed educata. Dicevo che sa amare. E quando ama lo fa totalmente. Secondo la
storia del mondo Giuda era un vigliacco. Io amo Giuda Iscariota. Perché mi
chiamo Bruno Brancher.”
Ex ladro, rapinatore e galeotto, noto
esponente della mala milanese del dopoguerra, Bruno Brancher (Milano, 1931
-2010)), ha speso la sua vita tra carceri e bassifondi, ma quando dalla seconda
metà degli anni ’70 ha scoperto di avere una vena letteraria ha cominciato a
scrivere romanzi, racconti e poesie. Si è trasformato così ne «il primo
scrittore analfabeta della letteratura italiana», come lui amava definirsi.
Un uomo ribelle e un artista maudit che ha
saputo trovare se stesso ed emanciparsi dai propri limiti, senza rinunciare
alla sua vera identità, ma temperandola. Guascone, sfottente, demistificatore,
rancoroso ma pronto a lasciarsi andare ad una risata liberatoria, amante
passionale e viaggiatore instancabile, Bruno pare votato all’italica arte di
arrangiarsi. Erede della tradizione orale dei cantastorie, possiede le doti
naturali dell’affabulatore e firma con i vividi racconti di Disamori e Tre monete d'oro i ritratti di un mondo milanese ormai decomposto.
L’irrequietudine di Brancher lo ha spinto
costantemente a sperimentarsi, a bruciare ogni esperienza, in una vita piena di
eventi e avventurosa come un film, e soprattutto a rivendicare la propria
dignità di essere umano. Quando per sopravvivere poteva contare solo su se
stesso, si è lasciato trascinare dalle occasioni più varie in ambienti spesso
spietati cercando disperatamente di farsi valere. Senza mai commiserarsi. Alle
umiliazioni e alle prepotenze, la sua risposta è stata sempre uno stoico «e va
ben inscì» («e va bene così»).
I tanti eccessi,
i risentimenti, la sua primitiva bontà, le
necessità pratiche che lo assillavano, il bisogno di cercare una società
giusta, tutto viene in luce di prepotenza come manifestazione di una vitalità
impetuosa, desiderosa di imporsi e di svelare il valore di un emarginato a chi
non lo può conoscere. E forse proprio per questo i
suoi libri puzzano di vino e santità.
«Rubavo per tirare a campare – una volta ha dichiarato Brancher –
per mangiare. Sono sempre stato un poveraccio, niente armi nei miei colpi. En
chell robb là di bohème ce n’era poca: in fondo ho pagato con vent’anni di
carcere un lungo, continuo, tentativo di evasione dalla miseria più nera. Ero
solo e dovevo cavarmela. Ho fatto di tutto: minatore in Belgio, soldato nella
Legione straniera, viveur a Parigi sotto la protezione delle lucciole di
Montparnasse, ladro di diamanti, sindacalista e fomentatore di rivolte nelle
carceri di mezza penisola.»
Lo scrittore-criminale era costretto a fare
il duro, ma in fondo Brancher non ne aveva la stoffa. Come quando,
giovanissimo, finito in riformatorio dopo il furto di una bici, Bruno scrive in
una lettera: “Cara mamma, qui dentro non sto bene, però spero che almeno tu te
la passi meglio di me. Vorrei piangere, ma podi nò, senno sarei considerato un
debole e sarei finito. Però piango lo stesso, ma nascostamente; mi ficco sotto
le coperte e me lasi andà e la nostalgia mi fa rivedere te, e Milano, e la Ripa
Ticinese, e le Cinque Vie, e il Centro che ora chiamano Storico. E anche la
nostra casa e va ben inscì. Vorrei esserti vicino. Il Duomo, e l’Alzaia
Naviglio Pavese, e la Porta Romana, e ancamò tuti i me amis. E tirum fora dechi
che mi ne podi pü.”
I suoi tanti libri di racconti e di poesie
ci raccontano di una periferia marginale, dove, mischiati agli ultimi arrivati,
ci sono i delinquenti di una volta, protagonisti di piccole beghe, di guerre di
quartiere e colpi sensazionali quanto casuali.
Nella Milano che fu, negli anni “eroici”
della mala cantata da Ornella Vanoni nelle sue indimenticabili melodie, o la
delinquenza cialtrona e improvvisata resa immortale dalla canzone di Jannacci
“La banda dell’Ortica”, esisteva ancora il ladro gentiluomo e lo scontro con la
polizia avveniva su un terreno quasi “cavalleresco”, un’epoca di estrema
povertà ma anche di dignità, un’epoca un po’ mitica e favolistica, spazzata via
all’apparire di nuove violente forme di criminalità organizzata. Allora, i
giovani di estrazione proletaria come Bruno, legati al territorio e alla sua
gente, svaligiavano gli appartamenti senza pistola, tirando avanti con piccole
ruberie; e, solidali tra loro, rispettavano codici di comportamento e regole
quasi cavalleresche. Avevano dei valori, per quanto discutibili. Non
accettavano, questo sì, gli stridenti contrasti sociali; avvertivano la
politica delle classi dirigenti al potere come uno strumento di mistificazione
se non di oppressione; e rifiutavano la logica del lavoro salariato in
fabbrica. Poi, al buio delle sale cinematografiche, si lasciavano sedurre dalle
figure degli eroi americani e dei polar francesi, sognando
romanticamente una temerarietà che non avevano e il grande colpo che poteva
cambiare la loro vita per sempre.
Nell’epica brancheriana le facce e le voci dei vecchi criminali rivivono
davanti ai nostri occhi, testimoniando il segreto di un'epoca irrimediabilmente
persa. Gente picaresca, sanguigna e primitiva. Uomini fisici, sensuali,
istintivamente contro. Un mondo fatto di persone a loro modo sincere e
concrete. Non di impalpabili icone mediatiche, che uccidono ferocemente
qualcuno e poi corrono davanti alle telecamere a discolparsi.
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