lunedì 29 ottobre 2012

IL ROMANZO POLIZIESCO E' NATO IN FRANCIA?

 Émile Gaboriau e il successo del romanzo giudiziario.
Il geniale autore de Il dramma di Orcival, Il Dossier 113 e Monsieur Lecocq reinventa il genere, dando cittadinanza artistica alla figura del poliziotto e raccontando le tecniche investigative forensi nella Parigi di fine Ottocento.
 


C’è chi sostiene che il genere giallo sia nato in Francia, anche se, a volerla dire tutta, lo rivendicano solamente al di là delle Alpi quei critici dotati di uno stomachevole complesso di superiorità. I soliti francesi! Invero Parigi è la città in cui sono ambientate le avventure di Dupin, l’investigatore di Poe. E sicuramente la metropoli francese alla metà dell’Ottocento vede aumentare la delinquenza e scomparire il suo senso di sicurezza. Nei quartieri meno ricchi, e dunque meno vigilati, la piccolo-borghesia avverte il pericolo che tra le masse disoccupate si annidino violenti fuorilegge. Nel 1847 il numero delle persone condannate per reati sono 375 ogni 100.000 abitanti e nel 1868 diventano 444. Nel 1880 si contano 143 aggressioni al mese e due anni più tardi viene vietata l’apertura dei caffè dopo mezzanotte per motivi di ordine pubblico. Balzac stima l’esistenza di 20.000 professionisti del crimine. Le prigioni si riempiono di  ladri, scassinatori, assassini. Sul fronte opposto Eugène-François Vidocq, spia, falsario, avventuriero e malavitoso evaso più volte, nel 1811 è messo alla testa della Sûreté, un servizio di polizia i cui membri sono ex criminali, e grazie a delazioni di informatori e infiltrati ed a interrogatori brutali ottiene numerosi arresti. Dopo le dimissioni, Vidocq pubblica le Mémoires in cui narra intrighi e consuetudini della criminalità metropolitana in cui si è addentrato. Le memorie conoscono un grande successo, ispirano Honoré de Balzac e sono il testo in cui secondo molti affondano le radici della letteratura poliziesca.


Terminate le repressioni, dopo le rivolte della classe operaia, la Sûreté elimina la corruzione interna e si riorganizza, diventando la polizia più efficiente al mondo. Una stampa libera e specializzata descrive l’ascesa della delinquenza e racconta storie di omicidi. Abbondano inchieste e reportage su fatti di cronaca che infiammano l’opinione pubblica. Un gran numero di melodrammi si ispira a efferati delitti. Il Boulevard de Temple è chiamato “Boulevard del crimine”.
Il primo romanzo poliziesco della storia della letteratura trova i suoi natali in questo clima incandescente. Nel 1866 un giornalista, Émile Gaboriau, colpito dai racconti di Poe si misura con la narrazione estesa, prende spunto dall’assassinio irrisolto di Cèlestine Lerouge, studia da vicino le tecniche investigative e pubblica a puntate sul “Pays” L’affaire Lerouge. Nella finzione l’inchiesta sul delitto della vedova Lerouge, che viveva in una casetta della banlieu, è affidata a Gévrol, inflessibile e metodico capo della Sûreté, funzionario ligio al dovere, e a un vecchio e funambolico signore che vive  di rendita, Tabaret, con un talento innato nello scoprire gli indizi. A fare da spalla ai due c’è l’arrivista Lecocq, giovane allievo di Tabaret. Dopo che la polizia fa arrestare un innocente e Gévrol dà prova della sua ottusità, Tabaret scopre l’assassino, che però si suicida. 
Ignorato dagli austeri lettori del “Pays”, il romanzo di appendice viene ridato alle stampe sul quotidiano “Le Soleil” con un’adeguata valorizzazione commerciale. Ed è, subito, un successo senza precedenti. Si noterà come un’operazione di marketing accompagni il destino del giallo fin dal suo inizio. Poi L’affaire Lerouge è lanciato in volume come il capostipite del “romanzo giudiziario”.
Tra le tre figure di investigatori, riceve il maggiore gradimento dei lettori il brillante Lecocq, che nelle opere successive assume il ruolo di protagonista, mentre Gévrol viene ignorato e Tabaret va in pensione. Il dramma di Orcival, Il Dossier 113, Monsieur Lecocq e La corda al collo sono pubblicati a puntate sulla prima pagina del “Petit Journal”, che al prezzo di cinque centesimi viene venduto perfino nelle campagne più sperdute. Ma chi è l’eroe di questa fortunata quadrilogia, che fa raggiungere al “Petit Journal” una tiratura di 300.000 copie? 
 Discendente da una famiglia ricca, costretto alla povertà dai rovesci economici, Lecocq è stato assistente di un famoso astronomo, il barone Moser, che ha riconosciuto in lui una mentalità criminale. «Quando si hanno le vostre disposizioni, si diventa o un ladro o un poliziotto!», gli ha detto il barone. E Lecocq ha fatto la sua scelta, come ammette: «M’ha preso di diventare anch’io una provvidenza in scala ridotta concorrente alla punizione del crimine e al trionfo dell’innocenza». Si dà alla chimica e studia gli effetti dei veleni. Adotta una terminologia scientifica e ama il gioco di induzioni e deduzioni. Si avvale delle tecniche che esaminano gli insetti al microscopio, mentre il suo maestro, Tabaret, utilizza i procedimenti di Cuvier: «Simile in questo a quei naturalisti che, con il solo esame di due ossi, disegnano l’animale a cui sono appartenuti». Ma Lecocq non è un infallibile detective da poltrona. E’ una persona che può sbagliare, ed anche uomo d’azione, uno che eccelle nell’arte del travestimento e ha la tenacia dei furfanti descritti da Vidocq nelle sue memorie. Cattura il criminale immedesimandosi in lui, seguendo il filo dei suoi ragionamenti. A proposito della sua caccia all’assassino, Lecocq dice: «Mi spoglio della mia individualità e cerco in ogni modo di rivestir la sua. Sostituisco la sua intelligenza alla mia. Smetto d’essere l’agente della Sûreté per essere quest’uomo, chiunque sia». 
Sul roman judiciaire di cui diventa il principale esponente Gaboriau ha le idee chiare: «Compito del lettore è quello di scoprire l’assassino, compito dell’autore è di mettere fuori strada il lettore». A differenza del più astratto Poe, il francese cerca una concretezza realistica e l’oggettività dell’informazione, attinge il suo materiale dall’ambito giudiziario, mira alla denuncia sociale, ma lavora anche sul piano emozionale, inventa intrighi movimentati e arricchisce la detection con la rappresentazione dei vizi umani.
Nel 1906 Cecil Chesterton, in un articolo intitolato Il giallo come opera d’arte, scrive: «nell’abilità tecnica di confezionare storie di mistero Gaboriau resta il primo e pressoché senza rivali. I suoi misteri sono veri misteri e le sue soluzioni sono vere soluzioni. E’ sconcertante, ma non è mai innaturale; non lascia niente di non spiegato; non stiracchia mai le coincidenze. Il sospetto passa naturalmente da un indiziato all’altro come farebbe nella vita reale».    
Il limite dei romanzi è semmai il rapporto, che Gaboriau non riesce a spezzare, con il feilleuton. Lo scrittore ricorre al vecchio repertorio di complicazioni, coup de théatre e digressioni sentimentali per dare alle opere maggiore estensione. Allunga forzosamente il brodo secondo il modello in voga. Avvicinandosi alla soluzione interrompe il racconto e comincia una noiosa seconda parte dove narra le vicende che hanno portato al delitto, poi riprende i fili del racconto e lo conduce allo scioglimento. Oggi molti critici gli rimproverano le fastidiose incursioni nel passato, una prosa sommaria, un linguaggio enfatico, personaggi rigidi come marionette e un eccesso di artificio che diluisce tediosamente l’attesa.
Il romanzo più vivace e riuscito è senz’altro Il dramma di Orcival, dove l’inconveniente del flashback entra nel pieno svolgimento della narrazione e quindi viene meno avvertito dal lettore. Qui un duplice misterioso omicidio avviene nel castello dei conti Trémorel. La polizia arresta i presunti colpevoli, quando giunge da Parigi Lecocq e riapre il caso. Esamina le circostanze del crimine, nota dettagli, individua i moventi e infine trova l’uomo la cui colpevolezza giustifica tutti i dati raccolti.
Ma la misura breve rappresenta ancora il passo ideale del giallo, contro una letteratura ottocentesca che esalta la durata frazionando i romanzi. Si veda il racconto di Gaboriau Il cane nero, vero e proprio pezzo di bravura.
Il vecchio e ricco Anténor viene trovato accoltellato nella sua abitazione. Prima di morire, ha fatto in tempo a scrivere sul muro, con il suo stesso sangue, “Monis”. Una parola che la polizia decifra riconducendola al nome del nipote. Il signor Monistrol, infatti, se la passa male, nel negozio di bigiotteria che conduce con la bella moglie. L’eredità dello zio servirebbe a rimettere in sesto le sue finanze. Il denaro, un movente vecchio come il mondo! La testimonianza di una portinaia lo inchioda: la donna dice di aver visto Monistrol salire le scale insieme al suo fido cane nero. E, come se non bastasse, la moglie accusa il marito e Monistrol confessa prendendosi le sue colpe. C’è n’è abbastanza per chiudere il caso, ma Méchinet, agente implacabile, e il giovane studente Godeuil, sospettano del comportamento reticente della signora Monistrol e pensano che qualcosa non quadri. In effetti il vecchio accoltellato non avrebbe avuto la forza di tracciare cinque lettere sul muro, e poi era mancino. Il suo estremo messaggio è stato  segnato con la mano destra, come se qualcuno avesse intinto nel sangue il dito del cadavere e inscenato la cosa. «Eravamo egualmente sicuri che la signora Monistrol non si era mossa da casa, la sera del delitto… ma tutto concorreva a dimostrare che lei era stata normalmente complice del crimine, che ne era stata a conoscenza, quando addirittura non l’avesse suggerito e preparato, e che per contro conosceva benissimo l’assassino… Chi era dunque costui? Un uomo di cui il cane di Monistrol obbediva come ai suoi padroni, poiché se l’era portato dietro fino ai Batignolles… Di conseguenza, un intimo di casa Monistrol. Egli doveva odiare il marito, poiché aveva combinato le cose in modo abilissimo affinché i sospetti ricadessero su quel disgraziato».
La strana coppia di investigatori, formata da un poliziotto e da un civile, arriva alla conclusione che l’omicida è l’amante della signora Monistrol e il suo intento è prendersi la donna, montando una macchinazione contro il marito e accaparrandosi le ricchezze della vittima. Ma allora chi è l’uomo visto dalla portinaia salire le scale poco prima del delitto? Non può essere che un commesso della bigiotteria, Victor, grande amico del signor Monistrol, che vanta una confidenza con quel diavolaccio del cane e, probabilmente, anche con la padrona. Victor, geloso di Monistrol, non ha esitato a indossare il suo impermeabile ed entrare camuffato nella palazzina, uccidendo il vecchio e addossando le colpe a un innocente.
«L’indomani Monistrol fu rimesso in libertà. Poiché il giudice istruttore gli rimproverava le sue confessioni menzognere che avevano esposto la giustizia al rischio di commettere un terribile sbaglio, non gli si cavò che questa ammissione:
– Amo mia moglie, volevo sacrificarmi per lei… la credevo colpevole… Lo era, colpevole? Ci giurerei.    Lei venne arrestata, ma fu rilasciata in seguito al processo che condannò Victor ai lavori forzati. Il signore e la signora Monistrol tengono oggigiorno un’osteria malfamata sul corso di Vincennes… L’eredità di loro zio è lontana; si trovano in una spaventosa miseria».          
 
Con Gaboriau la figura del poliziotto entra per la prima volta nella letteratura. Fino a quel momento disprezzato dai lettori, l’agente della Sûreté diventa un eroe. Non è un dilettante in cerca di distrazioni, non è un superuomo che elegge i crimini come passatempo, ma una persona in carne e ossa, un professionista che lavora. Lecocq e Méchinet preferiscono l’indagine al ragionamento, verificano scrupolosamente i fatti e, grazie alla loro esperienza, al talento e alla saggezza, fanno centro. L’introduzione di un personaggio più realistico e umile al centro della letteratura riflette il mutamento dei costumi sociali. La polizia viene vista dal ceto medio non più come un male necessario, ma come un’istituzione che fa regnare l’ordine, vigila sullo scontento, sorveglia gli strati bassi della popolazione e si oppone ai malfattori. I cittadini onesti avvertono il bisogno di essere garantiti e conferiscono alla pubblica sicurezza uno statuto di grande prestigio. Contemporaneamente, nasce l’antropologia criminale come disciplina che studia la personalità del soggetto delinquente e agli apparati di polizia vengono in aiuto gli strumenti della scientifica e della criminologia. La detective fiction racconta i progressi di schedatura, dal servizio di antropometria di Bertillon alla moderna dattiloscopia, l’esame delle impronte digitali, e contribuisce a modificare la percezione dello sbirro nell’immaginario sociale, anche se spesso gli onori tributati agli agenti e alle loro conoscenze non corrispondono al vero. Si vedano i commenti di Edmond Locard, direttore del Laboratorio di Polizia scientifica di Lione: «L’opera poliziesca di Gaboriau è assai originale e insieme di una straordinaria verosimiglianza. Originale, perché nessuno prima di lui aveva rappresentato quei tipi poi giustamente divenuti proverbiali; verosimile, poiché né i procedimenti né le persone si dipartono da quello che è la polizia autentica. Non dirò che i fatti che egli racconta siano dei delitti ordinari e senza rilievo: appartengono anzi alla specie dei drammi che appassionano e colpiscono l’opinione pubblica. Tuttavia non sono né più strani né più complicati di molti processi moderni. (…) D’altra parte dai romanzi di Gaboriau i poliziotti avrebbero enormemente da imparare. Non ce n’è uno che possieda, non dico quella logica e quella sicurezza nell’indagine, ma neanche quelle cognizioni tecniche così ignorate nella più parte dei servizi di polizia. Non un agente francese su mille saprebbe seguire una traccia come Lecoq».

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