Quanto hanno
incassato veramente gli ultimi lungometraggi italiani? Com’è andata la stagione
per i registi più amati dello stivale? Virzì, Bellocchio, Piccioni, Soldini, Comencini,
e compagnia bella, hanno passato l’esame? Si salveranno dalla rottamazione? Il
nostro cinema è tornato ad essere il brutto anatroccolo di poco tempo fa?
Perché, ad eccezione di Marco Giusti, nessun critico stende un realistico
bilancio – industriale e intellettuale – dell’autunno delle sale? Quanto
contano i finanziamenti pubblici sul mercato e quanto pesano sui meccanismi
iterativi di certa produzione che ripropone sempre gli stessi attori, le stesse
storie e lo stesso linguaggio? Il nuovo presidente di Rai Cinema porrà un freno
allo sperpero di risorse?
“Le
pellicole italiane che ho visto negli ultimi anni sembrano tutte uguali. Che
cosa è successo? Ho amato così tanto il cinema italiano degli anni Sessanta e
Settanta e alcuni film degli anni Ottanta, e ora sento che è tutto finito”.
Così parecchi anni fa si esprimeva
Tarantino a proposito del nostro cinema, consegnando alla memoria la
sua drastica bocciatura del film made in Italy.
Cos’è
cambiato rispetto ad allora? Niente. Come siamo messi oggi? Peggio.

I NUMERI IMPIETOSI
Non
esiste una cultura degli autori che spinga gli spettatori a seguire un film di
un particolare regista. La dimostrazione empirica è che il talentuoso Matteo Garrone,
reduce dai 10 milioni di Gomorra e da
prestigiosi riconoscimenti internazionali, si è dovuto accontentare dei 2 di Reality. Se pensava di riposare sugli
allori, sbagliava, ed è stato punito, complice anche una collocazione maldestra
ed una campagna di marketing da operetta.
This Must the place, costato quasi 30 milioni di euro, in virtù di un
cast stellare che sostiene una trama alquanto scombiccherata, si è fermato invece
a 6 milioni.
Il
pasticciato Bellocchio di Bella addormentata
si è dovuto accontentare di un milione di euro nonostante l'attenzione
mediatica suscitata per il caso Englaro, le ottime recensioni e le vibranti
proteste dell’autore per l’esclusione dal premio di Venezia.
Io e te di Bertolucci supera di poco, almeno stando ai dati
in possesso finora, il milione e mezzo di incassi.
Forse
si ha voglia di leggerezza? Forse la gente è stanca del cinema drammatico? Gli
spettatori snobbano le storie impegnate e preferiscono le opere più scorrevoli?
Manco per niente! Infatti anche i film di Soldini e di Virzì, che erano
tutt’altro che lacrimevoli, hanno deluso le aspettative. E di molto.
Il comandante e la cicogna di Soldini - a cui comunque si deve riconoscere la capacità di aver montato una coproiduzione internazionale - fatica a superare un milione e duecentomila
euro, quasi la metà di Cosavogliodipiù
e un quarto di Giorni e nuvole.
A
dire il vero Soldini e Virzì sono stati sostenuti in modo encomiabile e disperato
dai nostri critici, che hanno gridavato al capolavoro ma sono stati smentiti dai fatti. A giudicare dalla quantità di
spettatori che i loro film hanno perso dopo il primo fine-settimana, gli
spettatori non sono rimasti contenti di queste storie e il passaparola deve aver svolto in
entrambi i casi una funzione negativa affossando definitivamente le pellicole.
E
pensare che era stato proprio il regista livornese a sbertucciare l’autore di Io sono l’amore in una stucchevole polemica
di qualche tempo fa dicendo "Guadagnino è stato respinto nelle sale
italiane" e gongolando sul successo de La
prima cosa bella. Ma – come dice il proverbio – chi la fa, se l’aspetti.
Il
Piccioni leggero e pensoso de Il rosso e
il blu si ferma ad un milione e 200.000 euro con un film riuscito a metà,
con una seconda parte ripetitiva e un finale inesistente che lascia qualche
dubbio sulle capacità drammaturgiche di chi ha riadattato per il grande schermo
il romanzo di Lodoli.
E
poi ci sono i bassi storici delle pellicole più deprimenti della storia e
gli spiccioli raccolti da film su cui, per carità cristiana, non mi soffermo
troppo: E' stato il figlio, con l'onnipresente Toni Servillo (776.000 euro); All’ultima spiaggia (283.000
euro); Un giorno speciale (212.000
euro), di una regista come la Comencini che in passato aveva azzeccato più di
un film; Padroni di casa (158.000
euro), storia che parte con ottime premesse ma frana inesorabilmente nella seconda parte; E io non pago - L'Italia dei
furbetti (123.293 euro su 86 schermi la prima settimana, e forse anche
l’ultima).
Il
paragone con Immaturi - Il viaggio
(11.817.694 €), Finalmente la felicità
(10.323.224 €) e La peggior settimana
della mia vita (9.678.404 €) sarebbe inclemente, e non è trascorsa un’era
geologica da quei successi. Le aspettative di produttori e distributori per
l’estate e per l’autunno 2012 erano francamente diverse.
I
flop fin qui elencati sono figli della crisi economica? Forse in tempi di
recessione la sala si svuota? Ma allora perché W l’Italia e Gladiatori di
Roma in 3D, ignorati dalla critica ufficiale, fanno risultati da capogiro, generando
non poca invidia tra i colleghi biliosi e rosiconi? Sì, ebbene sì, W l’Italia continua la sua marcia
inarrestabile con quasi 5 milioni di incasso e, sebbene abbia fatto arricciare
il naso a qualche addetto ai lavori, risulta un film gradevole, sincero,
graffiante, liberatorio.
UNA VOCE CRITICA
Il
60enne Pietro Valsecchi, produttore con Medusa del campione di incassi Che bella giornata (43 milioni di euro),
sostiene che «il vero problema sta nel fatto che il cinema italiano non incassa
nulla. Non è vero che la gente non va al cinema perché c’è la crisi, Batman lo vanno a vedere eccome, il
punto sta in ciò che si racconta. Il mondo non ci riconosce, i contenuti
proposti dal nostro cinema non funzionano né qui né negli altri Paesi». Ma
allora che fare? Occorre partire dalle «cricche che hanno diviso il nostro
cinema in base alle invidie invece che ai meriti». E poi «sradicando la
nomenclatura, i critici che pensano di essere i capitani del cinema e invece
non sono più seguiti da nessuno».
Risultato?
La piaggeria della critica nostrana e il
consociativismo dei media hanno cercato di occultare quello che le cifre degli
incassi, nude e crude, denunciano impietosamente. Oggi è sotto gli occhi di
tutti che gran parte dei film italiani non funzionano e purtroppo non tutti i registi
sono disposti ad accollarsi la responsabilità del loro fallimento, con la stessa
umiltà e con lo stesso realismo con cui Lucarelli ha reagito davanti ai fischi
per il suo L’isola degli angeli caduti.
LA CASTA DEGLI AUTORI
Un esame di coscienza non farebbe male ai
soggetti coinvolti in un flop, e men che mai davanti alla clamorosa emorragia
di spettatori che – dopo un periodo fortunato – sono tornati a rifiutare il
cinema tricolore. Ma qui arriviamo al
punto dolente.
I
registi che incappano nel fiasco, gli stessi registi che sono stati bastonati a
livello internazionale e ignorati nelle sale italiche, hanno formato ormai una casta, con un potere ormai consolidato. Vivono di una rendita di posizione e non sono mai messi in discussione. Spesso e volentieri chiedono
i finanziamenti statali e spavaldamente esigono, pretendono a tutti i costi che
RaiCinema e Mibac, partner commerciali delle loro disavventure, facciano la loro parte mettendo moneta, salvo poi gridare allo scandalo se non
ottengono la pecunia. I dirigenti di RaiCinema e del Mibac, quelli che hanno
avvallato progetti fallimentari, non devono rispondere a nessuno, restano attaccati
alla loro poltrona e non si pongono il problema di una defaillance o di
rivedere le loro strategie selettive e il loro approccio alla distribuzione. A loro volta, i produttori
non cercano nuove idee, nuovi attori, nuovi sceneggiatori, nuovi filmaker, come
sarebbe normale, ma si affidano al solito cast, al solito sceneggiatore e al
solito regista e si limitano a presentare la solita richiesta di finanziamento
in uno stato conservativo da diagramma piatto. In questo gioco al massacro i
distributori si impegnano a lanciare il solito vecchiume ed a
oscurare le novità più originali. L’autolesionismo non ha limiti,
se pensiamo che i partner pubblici difficilmente respingono le candidature dei Maestri, non fanno le pulci ai loro copioni, nessun editor si sogna di migliorare le
loro sceneggiature ma le accettano aprioristicamente, perché provengono
da Autori con la maiuscola, e talvolta non c’è nessun controllo preventivo sulla
qualità del lavoro svolto.
La legge del mercato non esiste e
l’apparato elefantiaco è talmente avvitato su se stesso che non è in grado di
espellere gli scrocconi, che continueranno a chiedere soldi a prescindere dai
risultati conseguiti, a prescindere dal box office, dalle storie proposte, dai
copioni presentati, dalla tipologia del linguaggio utilizzato, perché un nome è un nome e niente gli si può negare,
con buona pace di menti fresche che avrebbero di meglio da offrire ma non hanno
i contatti giusti per farlo. Sembrerebbe un incubo kafkiano se non ci fossero
in ballo dei soldi, ed anche parecchi, e provenienti,
purtroppo, dalle casse dell’erario.
LO SPRECO DI SOLDI
Ecco
così che un fiume di denaro pubblico viene liquidato con estrema facilità (nel
2011 ad es. 96 milioni di euro erogati dallo Stato, 20 dagli enti locali, e consideriamo anche 42
derivati dal credito d’imposta e 25 per il tax credit esterno), a cui si devono
aggiungere una media di circa 70 milioni raccolti attraverso le emittenti
televisive della Rai, e poi – dulcis in fundo – le quote investite da Rai
Cinema (la cui entità non è dato sapere, in piena operazione trasparenza).
Insomma, anche il prossimo anno una montagna di quattrini si appresta ad essere
versata per progetti fragili e dalle gambe corte, e in assoluta clandestinità cadrà
nelle mani tese degli Autori “di sinistra”, in tempi di ristrettezze economiche
che imporrebbero quesiti morali sulla liceità di tale sperpero o
almeno, come minimo, una selezione onesta delle opere, il rendiconto dello
stato dei lavori e la contabilità esatta delle somme impiegate, anche perché in un paese civile tutti dovrebbero sapere quanto paga il network della Rai –
servizio pubblico - l’acquisto dei diritti televisivi.
IL SUICIDIO DI UNA INDUSTRIA CHE NON E' TALE
Paradossalmente di questo clima stagnante soffre anche l’industria privata, che punta sulle produzioni di sistema, sui volti noti e sulla Commedia come se fosse
la panacea di tutti i mali e come se far ridere fosse facile, sovraffollando i
palinsesti del circuito di film fatti con lo stampino e usciti tutti nello
stesso periodo.
“Le
settimane che verranno ripresenteranno lo stesso schema. – profetizza Marco
Giusti – Piccoli e meno piccoli film d'autore con
Mastandrea-Buy-Rohrwacher-Herlitzka (ormai il nuovo Bombolo del film civile), e
più o meno modeste commedie con Ambra-Bova-Gassman-Papaleo-Marescotti-Mattioli
(il nuovo Bombolo del film comico), che non potranno competere con i film
americani.”
Una
strada per il rinnovamento artistico e commerciale la indica invece Riccardo
Tozzi, presidente dell’Anica e amministratore di Cattleya, auspicando il
ritorno del «cinema di genere firmato dagli autori, un sentiero che non è stato
più battuto», incappando peraltro nella solita parolina magica, quella degli
Autori, di cui non si può proprio fare a meno. «Se in questo momento l’immagine
del nostro Paese ci fa schifo, è chiaro che si tenda a rifuggire da tutto il
cinema che rimanda quell’immagine. – dice Tozzi - Non si ha voglia di andare a
rivedere sullo schermo quello che leggiamo sui giornali».
E il cinema di genere lo invocano in molti,
ormai, come un potente antidoto contro la crisi. Il Mibac però sembra
allergico a gialli, thriller, horror e fantasy, e non ne vuol sapere dell’immaginario
di genere che negli anni Sessanta e Settanta ha fatto la fortuna dell'Italia. Al contrario premia lungometraggi pesanti come macigni e possibilmente lacrimosi,
neorealisti e piagnoni proposti da produttori iper-collaudati, mentre Rai
Cinema – con le dovute eccezioni – seguita a favorire i nomi di Autori
ampiamente accreditati in assenza di principi meritocratici ed in un patetico immobilismo che lascia i contribuenti allibiti
e gli spettatori sempre più inferociti.
In
un suo recente articolo Marco Giusti auspica un veloce cambiamento di rotta,
altrimenti prevede una morte del cinema, come per la protagonista di Bella addormentata. Ma più che di
eutanasia, in questo caso siamo certi che si tratterebbe di suicidio. “Può
essere giusto produrre film, sia d'autore che di genere, a basso costo, ma
spesso sembra che basso costo significhi anche minore qualità e ripetizione
infinita degli stessi attori negli stessi ruoli. Anche dai periodi di crisi si
può uscire sperimentando nuove idee e nuove personalità autoriali, ma non viene
fatto questo, si produce solo di meno e a minor costo. […] Dovremmo pensare,
oltre a produrre all'infinito i film dei soliti dieci registi e commedie meno
riuscite di quelle degli anni precedenti, a quale cinema stiamo facendo e a quale
ci piacerebbe fare, e a quale spazi possiamo offrire ai ragazzi che si
affacciano con freschezza e idee originali in un simile contesto culturale.
Altrimenti, oltre a rottamare la vecchia politica, si potrebbe rottamare anche
il nostro cinema. E, ahimé, nessuno se ne accorgerebbe”.
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