giovedì 28 giugno 2012

LA DALIA NERA, WILMA MONTESI E LA MITOLOGIA POPOLARE

Nel dopoguerra la 'cronaca nera’ rubò il linguaggio al mito e sostituì metafore prefabbricate ai fatti concreti.

I miti hanno una tenace vitalità e seducono l’immaginazione più delle storie vere. Come nel caso dei delitti di Elizabeth Short e di Wilma Montesi, sfidano la ricostruzione dei documenti giudiziari e arrivano perfino a creare una realtà aprioristica e indubitabile. Il caso americano riflette una metafora suggestiva, la “ragazza di provincia traviata dalla grande città”. Il secondo assassinio, quello italiano, ci racconta la “piccolo borghese corrotta dai laidi potenti”. In modo opposto e complementare, entrambi i miti se ne infischiarono della solidità e della veridicità dei fatti, perché il sostrato dell’allegoria aveva più fascino del corpo reale da cui nasceva.  
In principio di tutto ci fu la Dalia Nera. Los Angeles, 15 gennaio 1947. Il corpo di una splendida 22enne, Elizabeth Short, viene trovato nudo e orrendamente mutilato, tagliato in due e con vistosi segni di tortura. La chiamavano la Dalia Nera per la sua abitudine a vestirsi di nero e per l’aria seducente, simile a quella di Veronica Lake in Blue Dahlia. Elizabeth faceva di tutto per farsi notare, era una bugiarda cronica e si inventata storie assurde, scroccava pasti a persone facoltose, frequentava lo showbiz losangelino e si divertiva ad ammaliare gli uomini. Cercava il partito giusto, l’uomo con cui sistemarsi. Inseguiva una carriera di attrice a Hollywood. O forse non lo sapeva neppure lei quello che voleva. Sarebbe stata disposta a qualsiasi cosa per finire sotto la luce dei riflettori. E alla fine c’era finita. Ma a prezzo della vita.
Le copertine sono tutte per lei, i giornali americani scavano nel torbido della sua esistenza, i media ricercano i numerosi amanti disseminati per la peccaminosa città. Quello che colpisce è l’efferatezza del delitto: i fendenti impressionanti, il busto segato come burro, il taglio da un orecchio all’altro che le apre il bel visino in un grottesco sorriso, il referto che parla di sodomizzazione e feci umane nell’intestino. Roba senza precedenti. E poi il ritratto della Dalia Nera, con il suo comportamento a tratti da vamp birichina e a tratti da fragile adolescente, con i sogni di celluloide nel cassetto e le sue aspirazioni da star, sembra quello di una donna più vera e crudele di qualsiasi personaggio immaginario di un film o di un romanzo, un supremo e feroce percorso in negativo che non a caso ha stregato molti cineasti e scrittori.
Il critico Roland Barthes spiega che il crimine mostruoso e inclassificabile è un fatto unico che racchiude elementi che risultano estranei a guerra, spettacolo, gossip e politica. E’ un’informazione totale. “Contiene in sé stessa tutto il suo sapere: non c’è bisogno di conoscere niente al mondo per poter fruire di un fait divers. Non rinvia formalmente a nient’altro che a se stesso”. In ciò sta la sua popolarità e la fama mondiale dell’indagine sulla Short.
In Italia dobbiamo aspettare il 1953 per avere un caso che susciti lo stesso scalpore, un caso che come quello della Black Dalia sia cavalcato dai media e diventi veicolo di diffusione per la stampa. Una povera 21enne è trovata morta. Ma le analogie finiscono qua. Wilma Montesi, una bella ragazza romana, giace vestita sulla spiaggia di Torvajanica, in località Capocotta, e inizialmente si pensa ad una sincope, un malore, forse un suicidio. Se le indagini sulla Dalia Nera, data anche la natura eccezionale del delitto, sono state fra le più vaste nella storia del Dipartimento di Polizia di Los Angeles e hanno coinvolto centinaia di agenti ed ispettori, arrivando a interrogare migliaia di persone, a Capocotta la polizia romana sembra accontentarsi della prima ricostruzione e da subito considera attendibile l’ipotesi di un incidente. Sono i giornali a riaprire il caso e ad assumere il ruolo di guida, imbeccando di volta in volta le forze dell’ordine, facendo allusioni, lanciando messaggi sibillini e piste investigative. La tesi più consolidata è quella di un complotto per coprire i veri assassini, che sarebbero alcuni potenti personaggi della politica romana. Secondo i segugi della carta stampata, Wilma Montesi sarebbe morta per overdose, o forse per un semplice malore, durante un’orgia, in una villa del marchese Ugo Montagna, alla quale avrebbe preso parte il musicista Piero Piccioni, figlio di un importante notabile democristiano. Non c’è nessuna prova che Piero abbia visto la defunta Wilma, né ci sarà mai un elemento che attesti che i due si siano incontrati a Roma o Capocotta, ma molti giornalisti sono pronti a giurare che il giovane musicista, figlio del potente ministro degli Esteri Attilio Piccioni, sia l’assassino, il mostro che ha portato la Montesi sulla strada della perdizione e se ne sia disfatto per evitare uno scandalo. Da qui nascono strumentalizzazioni politiche, lotte intestine alla Dc portate avanti da chi vuole affossare il padre di Piero Piccioni, manovre dei servizi segreti, intromissioni clericali, dispute tra polizia e carabinieri e un’ondata moralizzatrice senza precedenti. Niente che abbia a che vedere con la ricerca della verità, ma solo illazioni e chiacchiere da bar.
Il poeta e critico tedesco Enzesberger descrive i meccanismi che trasformano i labili indizi in prove in una società pettegola e invidiosa, con una polizia che non ha una minima cultura delle indagini.
Il procedimento razionale del lavoro del detective non ha in Italia alcuna funzione decisiva: non è Sherlock Holmes che domina la situazione, ma la Fama. Un assioma della criminologia italiana è che là dove c’è stato un delitto ci saranno prima o poi delle chiacchiere; la polizia condivide questa opinione con il popolo. Appena la diceria giunge all’orecchio della polizia, diventa una “informazione ufficiosa”, si afferma e si consolida, assume consistenza. Diventa così un dossier.
Il caso Dalia Nera e l’affare Montesi restano i più grandi eventi mediatici del Novecento ed entrambi sono casi giudiziari ancora irrisolti. L’unica certezza è che il mostro l’abbia fatta franca, a Los Angeles come a Roma, e che poi le chiacchiere raccolte dai giornali abbiano avuto un valore eccessivo e ingiustificato. Nel caso italiano l’immobilismo di polizia e magistratura ha creato un vuoto che è stato riempito dalla stampa, la quale è diventata nel corso dei mesi la vera artefice delle indagini. Il tasso di politicizzazione dell’inchiesta ha fatto sì che tutti puntassero il dito contro un innocente, la cui unica colpa era quella di essere figlio di un politico che aspirava a guidare la Democrazia Cristiana.
I giornali nostrani hanno cercato ostinatamente la verità. Ma una verità su cui fondare il mito della “piccolo-borghese corrotta”, di una povera Montesi corrotta e perduta nel vizio. Quando la prova dei fatti li ha contraddetti, hanno continuato a sposare il mito. La cornice mitologica presupponeva un rituale che formasse una adeguata spiegazione delle cose e non chiedesse un consenso dubitativo. I cronisti di nera e di gossip hanno elaborato una interpretazione che potesse suonare come assoluta all’orecchio della gente comune. Sapevano che le loro deviazioni romanzesche avrebbero resa significativa e persino epica una vita trascurabile. Perciò hanno trasformato il delitto di un oscuro maniaco in una appassionata finzione davanti a cui i lettori potessero piangere o indignarsi.
  1. B.

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