I miti hanno una tenace vitalità e seducono l’immaginazione più delle storie vere. Come nel caso dei delitti di Elizabeth Short e di Wilma Montesi, sfidano la ricostruzione dei documenti giudiziari e arrivano perfino a creare una realtà aprioristica e indubitabile. Il caso americano riflette una metafora suggestiva, la “ragazza di provincia traviata dalla grande città”. Il secondo assassinio, quello italiano, ci racconta la “piccolo borghese corrotta dai laidi potenti”. In modo opposto e complementare, entrambi i miti se ne infischiarono della solidità e della veridicità dei fatti, perché il sostrato dell’allegoria aveva più fascino del corpo reale da cui nasceva.
In principio di tutto ci
fu la Dalia Nera. Los Angeles, 15 gennaio 1947. Il corpo di una
splendida 22enne, Elizabeth Short, viene trovato nudo e
orrendamente mutilato, tagliato in due e con vistosi segni di
tortura. La chiamavano la Dalia Nera per la sua abitudine a vestirsi
di nero e per l’aria seducente, simile a quella di Veronica Lake in
Blue Dahlia. Elizabeth faceva di tutto per farsi notare, era
una bugiarda cronica e si inventata storie assurde, scroccava pasti a
persone facoltose, frequentava lo showbiz losangelino e si divertiva
ad ammaliare gli uomini. Cercava il partito giusto, l’uomo con cui
sistemarsi. Inseguiva una carriera di attrice a Hollywood. O forse
non lo sapeva neppure lei quello che voleva. Sarebbe stata disposta a
qualsiasi cosa per finire sotto la luce dei riflettori. E alla fine
c’era finita. Ma a prezzo della vita.
Le copertine sono tutte
per lei, i giornali americani scavano nel torbido della sua
esistenza, i media ricercano i numerosi amanti disseminati per la
peccaminosa città. Quello che colpisce è l’efferatezza del
delitto: i fendenti impressionanti, il busto segato come burro, il
taglio da un orecchio all’altro che le apre il bel visino in un
grottesco sorriso, il referto che parla di sodomizzazione e feci
umane nell’intestino. Roba senza precedenti. E poi il ritratto
della Dalia Nera, con il suo comportamento a tratti da vamp birichina
e a tratti da fragile adolescente, con i sogni di celluloide nel
cassetto e le sue aspirazioni da star, sembra quello di una donna più
vera e crudele di qualsiasi personaggio immaginario di un film o di
un romanzo, un supremo e feroce percorso in negativo che non a caso
ha stregato molti cineasti e scrittori.
Il critico Roland Barthes
spiega che il crimine mostruoso e inclassificabile è un fatto unico
che racchiude elementi che risultano estranei a guerra, spettacolo,
gossip e politica. E’ un’informazione totale. “Contiene in sé
stessa tutto il suo sapere: non c’è bisogno di conoscere niente al
mondo per poter fruire di un fait divers. Non rinvia
formalmente a nient’altro che a se stesso”. In ciò sta la sua
popolarità e la fama mondiale dell’indagine sulla Short.
In Italia dobbiamo
aspettare il 1953 per avere un caso che susciti lo stesso scalpore,
un caso che come quello della Black Dalia sia cavalcato dai media e
diventi veicolo di diffusione per la stampa. Una povera 21enne è
trovata morta. Ma le analogie finiscono qua. Wilma Montesi,
una bella ragazza romana, giace vestita sulla spiaggia di
Torvajanica, in località Capocotta, e inizialmente si pensa ad una
sincope, un malore, forse un suicidio. Se le indagini sulla Dalia
Nera, data anche la natura eccezionale del delitto, sono state fra le
più vaste nella storia del Dipartimento di Polizia di Los Angeles e
hanno coinvolto centinaia di agenti ed ispettori, arrivando a
interrogare migliaia di persone, a Capocotta la polizia romana sembra
accontentarsi della prima ricostruzione e da subito considera
attendibile l’ipotesi di un incidente. Sono i giornali a riaprire
il caso e ad assumere il ruolo di guida, imbeccando di volta in volta
le forze dell’ordine, facendo allusioni, lanciando messaggi
sibillini e piste investigative. La tesi più consolidata è quella
di un complotto per coprire i veri assassini, che sarebbero alcuni
potenti personaggi della politica romana. Secondo i segugi della
carta stampata, Wilma Montesi sarebbe morta per overdose, o forse per
un semplice malore, durante un’orgia, in una villa del marchese Ugo
Montagna, alla quale avrebbe preso parte il musicista Piero Piccioni,
figlio di un importante notabile democristiano. Non c’è nessuna
prova che Piero abbia visto la defunta Wilma, né ci sarà mai un
elemento che attesti che i due si siano incontrati a Roma o
Capocotta, ma molti giornalisti sono pronti a giurare che il giovane
musicista, figlio del potente ministro degli Esteri Attilio Piccioni,
sia l’assassino, il mostro che ha portato la Montesi sulla strada
della perdizione e se ne sia disfatto per evitare uno scandalo. Da
qui nascono strumentalizzazioni politiche, lotte intestine alla Dc
portate avanti da chi vuole affossare il padre di Piero Piccioni,
manovre dei servizi segreti, intromissioni clericali, dispute tra
polizia e carabinieri e un’ondata moralizzatrice senza precedenti.
Niente che abbia a che vedere con la ricerca della verità, ma solo
illazioni e chiacchiere da bar.
Il poeta e critico
tedesco Enzesberger descrive i meccanismi che trasformano i labili
indizi in prove in una società pettegola e invidiosa, con una
polizia che non ha una minima cultura delle indagini.
Il procedimento razionale del
lavoro del detective non ha in Italia alcuna funzione decisiva: non è
Sherlock Holmes che domina la situazione, ma la Fama. Un assioma
della criminologia italiana è che là dove c’è stato un delitto
ci saranno prima o poi delle chiacchiere; la polizia condivide questa
opinione con il popolo. Appena la diceria giunge all’orecchio della
polizia, diventa una “informazione ufficiosa”, si afferma e si
consolida, assume consistenza. Diventa così un dossier.
Il caso Dalia Nera e
l’affare Montesi restano i più grandi eventi mediatici del
Novecento ed entrambi sono casi giudiziari ancora irrisolti. L’unica
certezza è che il mostro l’abbia fatta franca, a Los Angeles come
a Roma, e che poi le chiacchiere raccolte dai giornali abbiano avuto
un valore eccessivo e ingiustificato. Nel caso italiano l’immobilismo
di polizia e magistratura ha creato un vuoto che è stato riempito
dalla stampa, la quale è diventata nel corso dei mesi la vera
artefice delle indagini. Il tasso di politicizzazione dell’inchiesta
ha fatto sì che tutti puntassero il dito contro un innocente, la cui
unica colpa era quella di essere figlio di un politico che aspirava a
guidare la Democrazia Cristiana.
I giornali nostrani hanno
cercato ostinatamente la verità. Ma una verità su cui fondare il
mito della “piccolo-borghese corrotta”, di una povera Montesi
corrotta e perduta nel vizio. Quando la prova dei fatti li ha
contraddetti, hanno continuato a sposare il mito. La cornice
mitologica presupponeva un rituale che formasse una adeguata
spiegazione delle cose e non chiedesse un consenso dubitativo. I
cronisti di nera e di gossip hanno elaborato una interpretazione che
potesse suonare come assoluta all’orecchio della gente comune.
Sapevano che le loro deviazioni romanzesche avrebbero resa
significativa e persino epica una vita trascurabile. Perciò hanno
trasformato il delitto di un oscuro maniaco in una appassionata
finzione davanti a cui i lettori potessero piangere o indignarsi.
- B.
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