Il decreto per l’investimento e la trasmissione dei film, salutato
dalle associazioni di categoria come salvifico per l’industria dell’audiovisivo,
farà piovere nelle casse dei produttori una grande quantità di soldi.
Lo Stato assistenzialista è la risposta alla crisi strutturale del
cinema italiano? Dare tanti soldi ai cinematografari serve a qualcosa? Aiuterà
a rendere più esportabili i nostri film? Oppure i soliti privilegiati godranno immeritatamente di contributi pubblici?
In tempi di crisi economica e di
recessione il Ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, e il Ministro per i
Beni e le Attività Culturali, Lorenzo Ornaghi, hanno creduto bene di regalare
ben duecento milioni di euro alla “cricca” dell’ambiente cinematografico come
ultimo atto del loro agonizzante governo, in barba al dilagare di corruzione, nepotismo
e mancanza di meriti che flagellano il sistema a tutti i livelli.
La risposta ai numerosi problemi
che assillano il cinema italiano è dare una pioggia di milioni a quegli stessi produttori
e registi che hanno sfornato film mediocri o assai poco competitivi sul mercato
internazionale. D’ora in poi RAI, MEDIASET e le altre emittenti saranno
obbligate a dare il loro obolo per finanziare il cinema italiano e programmarlo
nelle loro reti, non importa se in tarda serata o al mattino presto, non
importa se per progetti di qualità o per idee proposte da persone inserite nel circuito.
Detto in soldoni, il pubblico
televisivo dovrà sorbirsi più film italiani distribuiti nei palinsesti, anche
se non sarà mai reso noto il criterio per cui è stato beneficiato un film
piuttosto che un altro (come avviene in qualsiasi paese civile).
Torniamo al protezionismo in
chiave autarchica, che abbiamo conosciuto durante il regime fascista. Certo, le
parole “quote di investimento finanziario e di programmazione” sono molto più
moderne ed eleganti e nascondono il sapore nostalgico dell’iniziativa.
Difendiamo l’industria dello
spettacolo pompando dentro denaro delle emittenti pubbliche e private, in una
sorta di spirale negativa che finirà per danneggiare anche le stesse reti
televisive, come un virus che inoculato dal “cinema più brutto del mondo”
renderà malati e brutti anche i network.
Ciò che in altri paesi può
funzionare in Italia diventa un modo per accaparrarsi il finanziamento di
turno. La corsa alle diligenze è già partita, quando il solo e unico modo per
uscire dalla crisi sarebbe cambiare mentalità. Mi permetto di dire
sommessamente che di soldi ce ne sono anche troppi per il reparto
cinematografico. Mancano però criteri meritocratici di assegnazione dei finanziamenti.
Se un film è brutto, è brutto e basta. Non va sostenuto finanziariamente, anche
se sarà prodotto da un famoso produttore, diretto da un regista quotato e
interpretato da un attore di grido. L’incompetenza e il pressappochismo di
stampo italiota finora non hanno premiato. Occorre una piccola rivoluzione. Trasparenza,
valore al merito ed equità nella selezione dei progetti dovrebbero essere gli
imperativi di tutti i contributi statali.
Ma vediamo nel dettaglio
l’osannato decreto Passera-Ornaghi.
Per quanto riguarda l'obbligo di
investimento, il provvedimento stabilisce per la RAI che il 3,6% dei ricavi
complessivi annui debba essere destinato a produzione, finanziamento,
pre-acquisto e acquisto di opere cinematografiche italiane, mentre per le altre
emittenti tale obbligo riguarda il 3,5% degli introiti netti. Per quanto
riguarda l'obbligo di programmazione, il testo prevede per la RAI che sia
dedicato a opere italiane l'1,3% del tempo di trasmissione per i palinsesti non
tematici e il 4% di quelli tematici, mentre per le altre emittenti tale
disposizione riguarda l'1% del tempo di diffusione per i palinsesti non
tematici e il 3% per quelli tematici.
Naturalmente le associazioni di
distributori, produttori, registi e sceneggiatori hanno applaudito
all’iniziativa.
Ancora non si è formato un nuovo governo (ammesso che ci sarà) e
già sono pronte a chiedere qualcos’altro, con la buona vecchia scusa che la
cultura è la cultura.
Alla miopia delle categorie in
questione, arroccate in posizioni di rendita, sfugge che bisogna ripartire
dalle fondamenta, da una imprenditoria meno improvvisata e fragile, da storie
dal respiro internazionale e da figure nuove che sappiano coniugare linguaggi
più moderni e originali.
Altrimenti il vento del cambiamento che - con tutte le
sue contraddizioni e la sua spinta rinnovatrice - ha investito la politica
italiana prima o poi arriverà a soffiare anche sulle case di produzione e sugli
Autori inseriti nel Sistema e potrebbe scuotere alle basi il vetusto mondo
delle professioni e la ingessata fabbrica del cinema, ormai diventata
autoreferenziale.
Mi piacerebbe chiudere con i tre
semplici punti che non sono in alcuna agenda italiana ma che sono emersi da un
workshop dell’Ateliers du Cinéma Européen e di Israel Film Fund, una specie di
programma che le migliori agenzie internazionali per il finanziamento
all'industria cinematografica vorrebbero promuovere ma che le istituzioni italiane
e i vari clan italici seguitano a snobbare.
1. Creare i presupposti al
sostegno alla produzione di film, senza preclusione di generi, e adatti a
raggiungere il più ampio pubblico internazionale.
2. Identificare nuove forme di finanziamento
per ottimizzare la relazione fra distribuzione e circuito delle sale
cinematografiche e per potenziare la diffusione on line dei film.
3. Riconoscere l'importanza
culturale e sociale dei film e assicurare la loro diversità e personalità nel
tentativo di catturare un pubblico di giovani e giovanissimi, e individuare
nuove fonti di finanziamento per mettere i produttori indipendenti e gli
istituti per la formazione in grado di far fronte alle proprie necessità.
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