giovedì 25 luglio 2013

PARASSITI DEL CINEMA, BUROCRATI E PASSACARTE, ARRENDETEVI!! SIETE CIRCONDATI!

Da Travel Companions a Lost in Google fino a Freaks... 
i prodotti digitali italiani che hanno cinto d'assedio il fortino del cinema assistito (con soldi pubblici). 
La nostra civiltà delle immagini versa ancora in una terribile arretratezza culturale ed economica, ma una nuova generazione di filmaker si prepara a scalzare quella precedente. A che punto siamo però con la produzione on line? Si guadagna con YouTube? Quali sono gli elementi più ricorrenti nelle web-series? Perché il web 2.0 da noi non tira? Chi sono i più seguiti e agguerriti youtubers? 
Quante visualizzazioni fanno? E’ possibile nel nostro paese concepire strategie innovative nell’audiovisivo? Chi frena la rivoluzione digitale durante l’era del governo Letta?      



I pionieri delle web-series

Dal 2009 si registrano, con un ritardo più che decennale rispetto ai paesi anglosassoni, le prime avventure produttive in Italia, tutte caratterizzate da un’impronta artigianale e naive. Web series spesso realizzate con intenti ludici e satirici. Video amatoriali con attori improbabili e di qualità grossolana. Storie improvvisate e banali. La web fiction italiana di primissima generazione non brilla certo per originalità e livello tecnico. Il settore recupera terreno, anche se il gap con USA e GB è pressoché incolmabile, progredisce di mese in mese e si sviluppa talmente velocemente che già fa diventare “storia” serie che in altri contesti sarebbero considerate giovanissime.
Andando a esaminare con sguardo retrospettivo alcuni dei nostri precursori, chi ha resistito alla prova del tempo? Quali sono i prodotti fruibili ancora oggi?


Uno dei capisaldi della web generation sono i dieci episodi comici di Travel Companions. La prima stagione nasce nel 2010 quando due videoamatori e ingegneri, Ferdinando Carcavallo e Luca Napoletano, decidono di riprendersi con una mini-dv mentre si recano al lavoro. Gag realistiche e conversazioni surreali, ambientate in un’auto. Una striscia di pochi minuti dove i due colleghi partenopei parlano del più e del meno immersi nel traffico di Napoli. C’è un’inquadratura fissa a bordo della vettura e le immagini sono in un bianco e nero sgranato. Lo stile è quello di The Elevator o del nostrano Camera Caffè. Un’estetica povera al servizio della storia. Che non è così improvvisata come sembrerebbe. Carcavallo e Napoletano hanno doti innate di recitazione e una scrittura raffinata, con battute a orologeria e note grottesche. 
Quello che doveva essere un modo divertente per passare il tempo diventa un progetto strutturato in episodi, che grazie ai contatti del social network viene apprezzata da un numero crescente di persone, vince il premio come migliore serie comedy straniera al Los Angeles Web Series Festival e riscuote l’interesse del network Comedy Central, che acquista alcune puntate trasmettendole in televisione. La serie made in Napoli avrebbe dovuto interrompersi nel 2011, ma dopo il travolgente successo, a furor di popolo, gli autori decidono di riprenderla e firmano una seconda stagione di undici episodi.

L’altra è uno dei prodotti più originali dell’età pioneristica e la serie che maggiormente si richiama ai principi internettiani della cooperazione col pubblico. Varata su Facebook nel dicembre 2010 è un thriller soprannaturale che sviluppa la sua trama tramite i contatti nei social forum ed esplora le direzioni del racconto suggerite dai followers. Undici episodi di un minuto ciascuno raccontano la storia di Martina Dego che rimane intrappolata nella biblioteca della sua scuola. Senza mezzi di comunicazione, cerca aiuto tramite il computer e il suo profilo Facebook, postando video e messaggi. Nessuno, però, sembra volerla ascoltare: nella vita reale, un’altra Martina, in tutto e per tutto identica a lei, ha preso il suo posto. Nello sviluppo della storia hanno un ruolo fondamentale foto e video postati dalla liceale e da altri personaggi di fantasia. Le persone in carne e ossa, invece, diventate fan del profilo della protagonista, comunicano con lei giorno e notte e lasciano centinaia di commenti. In termini numerici gli iscritti alla pagina di Martina non sono molti, non superano i 2500, ma il loro coinvolgimento è sorprendente. Chi è un fan? Cosa lo differenzia da un comune spettatore? Il fan non si accontenta di far parte del pubblico critico ma, dopo essersi interrogato sui meccanismi dell’opera, passa all’azione, completa le informazioni del racconto e si inserisce nelle parentesi di cui la narrazione è disseminata. L’altra fa intervenire i suoi fans direttamente sul campo da gioco e diventa la prima “alternate reality series”, in cui i partecipanti vivono il racconto da protagonisti e la community modifica la struttura stessa della serie. Riccardo Milanesi, ex allievo della Scuola Holden, ideatore de L’altra, richiama la cultura partecipativa della nuova generazione e ha il merito di rendere i meccanismi del social network parte integrante della trama.
L’anno seguente Milanesi propone sulla Rete Fable Girs. Questa volta però nuocciono alla serie un eccesso di tecnica e la ricerca dell’originalità a tutti i costi. Lo stile del cinemagraph, a metà tra il servizio fotografico e lo storytelling d’alta moda, resta freddo e poco coinvolgente. Gli episodi si fanno apprezzare per la rivisitazione delle favole dell’infanzia ed escono in coincidenza con il bicentenario della morte dei fratelli Grimm. Nella prima puntata si nota una provocante Suicide Girl Meriem Ultima, corpo ricoperto da tatuaggi e generoso decolleté, nelle vesti di moderna e orientaleggiante Cappuccetto Rosso. Che rovescia lo stereotipo e terrorizza il Lupo. Ma non si va al di là dell’esercizio virtuosistico.


Lost in Google è la prima serie che in Italia conquista un pubblico ampio e diventa un prodotto virale. Aggiorna lo spunto di un racconto del compianto Richard Matheson, Dai canali, in cui una famiglia viene risucchiata dal televisore durante una tranquilla serata. A colpi di plot mescola il grottesco alla fantascienza e, ancora una volta, racconta di una scomparsa. La web-star Ruzzo Simone, sollecitato dalla collega Proxy, cerca "Google" su Google e questo gesto apparentemente innocuo apre un cortocircuito tra la nostra realtà e quella virtuale, proiettando Simone nel web. Nel corso degli episodi, Proxy cercherà di salvare Simone liberandolo dall’universo parallelo, ma ci finirà dentro anche lei e dovrà guardarsi le spalle da un complotto internazionale. 
Nella fantasia degli autori Google è un’invenzione sviluppata dai primordi, un’entità totemica che esiste da sempre, un mondo distopico da cui si può essere risucchiati. Non sono mancati i critici che hanno letto in filigrana una denuncia del desiderio compulsivo di internet, la mania delle nuove generazioni di trascorrere ore sulla rete considerandola come un mondo, il loro mondo (anche se de-realizzato).    
L’elemento più importante del prodotto resta l'interazione con gli utenti secondo un modello utilizzato qualche anno prima dalla serie americana I.Channel. I commenti degli utenti compaiono con una grafica accattivante direttamente nel video, sono utilizzati per sceneggiare l'episodio successivo oppure inseriti prima dei titoli di coda dell’episodio.
I dati parlano subito di un successo senza precedenti: fino ad oggi 420.000 visualizzazioni per il primo e per il secondo episodio, oltre 300.000 per il terzo e i successivi. La diffusione “esplosiva” delle puntate contagia progressivamente la cerchia degli spettatori, come un virus comunicativo, e si propaga attraverso il passaparola, fino a sollecitare l’interesse dei media tradizionali che ne danno un’ampia copertura sul piano informativo.
I creatori di Lost in Google, Francesco Capaldo, Simone Russo e Alfredo Felaco, sono un gruppo indipendente attivo dal 2005 e formano i pilastri della casa di produzione napoletana TheJackal, che si occupa di viral marketing e videoclip. Come è riportato nel loro sito, quello che caratterizza il gruppo è un’azione di “sciacallaggio” verso la settima arte e la web culture in generale, smantellate e ricostruite in corti e fake-trailer parodici che fanno il verso ai grandi del cinema, spesso usati come contenitore di argomenti di carattere sociale .


La stessa passione per i prodotti di oltreoceano e la stessa capacità di smontare e riassemblare materiali audiovisivi, con esperienze in remake, mash-up e video amatoriali scanzonati, caratterizza l’anno dopo gli autori di Freaks!, la serie che vede uniti Claudio Di Biagio, in arte nonapritequestotubo, Matteo Bruno, web celebrity con lo pseudonimo di canesecco, Guglielmo Scilla, meglio conosciuto come Willwoosh, e Giampaolo Speziale, cantante rock degli About Wayne.
Facce pulite, romani, tra i 20 e i 24 anni, appassionati di musica, video e web, Di Biagio e soci ideano una storia a puntate e si rivolgono nel 2011 alla creative farm Show Reel per ottenere l’attrezzatura necessaria a realizzare la serie. La trama è incentrata su cinque ragazzi che vengono uccisi e, dopo mesi di sonno letargico, catapultati nella Roma di oggi. Scoprono così di avere acquisito dei superpoteri, ma non sono in grado di gestirli. Tra fiumi di sangue, violenze stilizzate e viaggi temporali, i ragazzi trovano sconvolta la loro quotidianità e cercano di adattarsi al nuovo . L’influenza di serial americani come Heroes o Flashforward è evidente fin dal primo episodio, ma è soprattutto il celebre teen-drama britannico Misfits a ispirare l’immaginario drammaturgico, costruito con uno stile originale e visionario.
Come viene accolto Freaks? In un solo giorno, su YouTube ci sono 100.000 contatti. Sorgono spontaneamente fan-club e blog dedicati. Gli upload sono salutati da migliaia di commenti da parte di una accalorata comunità. Le successive puntate innescano il passaparola e sono capaci di raggiungere visibilità come “infezioni comunicative”. La promozione sui social network fa il resto e la serie inizia a generare clip parodistiche ed è oggetto di satira da parte dei prosumer che sbeffeggiano la trama complessa e talora surrettizia. Al di là del valore contenutistico, Freaks totalizza più di 8 milioni di views e questo vuol dire che, per la prima volta, le web-serie sono competitive rispetto alla televisione. Se Lost in Google può essere considerato un apri-pista, anche in termini numerici, Freaks arriva come un fulmine a ciel sereno e scuote dalle fondamenta il sistema audiovisivo italiano. Le puntate sui supereroi romani si affermano come un fenomeno di culto tra i giovani utenti. E’ la prima serie online destinata a generare “fandom” nella collettività, cioè a produrre nei suoi adepti una forma di fruizione intensa, dedicata e appassionata sino al limite dell’immedesimazione.
Il premio che si aggiudica al Telefilm Festival del 2011 come migliore serie sembra una provocazione, in antitesi al mercato troppo prevedibile della tv, ma segna la mancanza di concorrenza di RAI e Mediaset nei confronti della creatività digitale.
Il canale Deejay TV non si lascia sfuggire l’occasione e ripropone in replica la prima stagione della serie. Contrariamente a tutte le aspettative, la seconda stagione, realizzata con mezzi maggiori dai videomaker e trasmessa in contemporanea allo streaming web, registra un sonoro flop. Di colpo Freaks sembra aver perso la sua audience. Com’è possibile? Sono molteplici le ragioni del calo di visualizzazioni e dell’insuccesso televisivo: l’esaurirsi dell’effetto novità, la “vampirizzazione” del medium televisivo, l’ipertrofia dei nuovi plot che sembrano girare a vuoto. Ma anche l’estrema volatilità delle cosiddette star del Tubo, che nella società delle immagini sono icone fugaci e facilmente deperibili. La pop culture divora miti e volti con la stessa velocità con cui scorrono le immagini di un telefonino. Nel fallimento ha inciso anche la perdita dello status anarcoide della web serie. La comunità dei fan che si era riconosciuta in un fenomeno spontaneo e radicato nella Rete e nella rottura delle convenzioni formali ha percepito la stagione televisiva come un prodotto istituzionale e costruito dall’alto, quasi imposto. La forma virale di consumo ha lasciato il posto ad un tentativo innaturale della televisione di appropriarsi delle logiche di funzionamento di un mondo assai distante. E questo non è piaciuto.

Arretratezza tecnologica e culturale del nostro paese

In questi giorni una generazione di registi e autori che ha beneficiato finora dei finanziamenti statali prova ad alzare la voce. "Soluzioni subito o boicottiamo Venezia" grida. A bassa voce, però. Tutti si guardano bene dal ricordare che la RAI secondo un referendum popolare dovrebbe essere privatizzata e rivendicano il diritto a godere dei soldi che arrivano da viale Mazzini. La questione naturalmente non è aumentare il tax credit (che pure sarebbe una buona cosa), succhiare dalle mammelle RAI oppure attingere al Fondo Unico per lo spettacolo (decurtato del 5,2%, ovvero 72,4 milioni di euro). No, la questione è un'altra. Ed è un po' più seria. Ne varrà della sopravvivenza dell'intero reparto. Sì, perché ragionare con la vecchia mentalità, pensare con logiche di distribuzione sorpassate e rinunciare a puntare al multi-tasking e alle potenzialità del continente sconosciuto che è la Rete sembra una mossa suicida. Mentre negli USA la web-fiction lancia il guanto di sfida alla tv tradizionale, mette in cantiere kolossal e scompagina il mercato pubblicitario, in Italia si cerca disperatamente di difendere lo status quo e si ignora la Rete. Insomma, si attraversa una sorta di “limbo”. Di internet nessun produttore, autore o network di sistema sembra curarsene molto. Ma la vera scommessa dell'audiovisivo si gioca lì, nel settore digitale. Se le storie per immagini vivranno tra 10 anni, lo si dovrà alla rete. 
Il ritardo storico della penetrazione di internet è dovuto ad una serie di concause, come l’invecchiamento della popolazione, la scarsa propensione alla tecnologia, la mancanza di risorse destinate al digitale. Siamo negli ultimi posti in Europa per l’uso del web. Tra i 38 milioni di italiani che accedono a internet, solo un quarto si connette tramite banda larga. Le connessioni oltre i 10 Mbps sono solo il 3,2 per cento sul totale nazionale. Il cosiddetto decreto del Fare rischia di segnare il de profundis. Corrette in extremis le norme per la liberalizzazione del wi-fi che le solite lobby avevano provato a frenare, il nostro Parlamento prevede che l'offerta di accesso alla rete internet al pubblico tramite tecnologia wi-fi non richieda l'identificazione degli utilizzatori quando non costituisca "l'attività commerciale prevalente del gestore del servizio". A fronte di questa salutare sburocratizzazione per bar, pub e hotel che vorranno allacciarsi alla rete, saranno sottratti fondi preziosi per finanziare il completamento del Piano nazionale banda larga e tolti ben 20 milioni di euro previsti dal dl "Crescita" del governo Monti. Come è stato scritto: “per i più critici significa salvare le televendite al costo di un perdurante gap tecnologico con gli altri paesi europei in fatto di internet veloce”.
Sui destini delle immagini in movimento e di internet pesano insomma le logiche del profitto e gli specifici (direi unici) modi di produzione della penisola. La principale responsabile dell’arretratezza è una classe imprenditoriale che ha capito di essere ad un bivio e si ripara dalle novità con un rigido conservatorismo. Difendendo lo status quo.  

Pensiamo a ciò che successe negli Usa con l’introduzione del sonoro. Il Vitaphone, il parlato sincronizzato con le immagini, era disponibile da tempo, ma non veniva adottato per timore che le majors non sapessero gestire l’invenzione ed i fattori di guadagno del muto potessero entrare in crisi. Furono i banchieri che controllavano la Warner a decidere di dotarsi della straordinaria risorsa costringendo la concorrente Paramount a fare altrettanto. All’epoca Hollywood reagì al sensazionale cambiamento ed ebbe la capacità di cercare divi parlanti e trovare nuovi assetti.

Ma le società italiane che operano in maniera artigianale possiedono il know how per affrontare la sfida della modernità? Il duopolio costituito da Mediaset e Rai e le sale cinematografiche in costante recessione avrebbero gli anticorpi necessari per fronteggiare un competitor come internet? C’è qualche player disposto a perdere le proprie posizioni di rendita? Silvio Berlusconi, proprietario di Medusa e diversi canali televisivi, potrebbe favorire il cablaggio in fibra arrecando un danno alle sue stesse aziende? La risposta, inequivocabile, è che il sistema non è ancora pronto a recepire attori economici intraprendenti e dinamici e non intende accogliere le innovazioni, in quanto una trasformazione tanto radicale si ripercuoterebbe drammaticamente sui comparti dell’audiovisivo e sui suoi gestori nazionali. Una fruizione estesa delle web series e uno spostamento negli investimenti dell’advertising spazzerebbero via l’impianto, già fragile e precario, di tv e cinema, e condannerebbero all’isolamento emittenti e produttori che in questi ultimi anni hanno proliferato in un intreccio di interessi perversi ed in assenza di una reale concorrenza.
In Italia la serie on line Freaks è stato ciò che fu il primo film sonoro negli Stati Uniti, ma la rivoluzione digitale che tutti dicono essere in atto non ci sarà mai nel paese, finché i detentori del potere vorranno mantenere clientelarismo, zone opache, assistenzialismo e intrecci oscuri con la politica, finché insomma gli imprenditori non impareranno una buona volta a fare gli imprenditori.


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