Nel 1887 esce il noir di Emilio De Marchi Il cappello del prete. Capostipite del genere giallo, storia di
fantasmi e ossessioni, sfida tra un barone nichilista e un avvocato detective
in una Napoli pittoresca, ebbe grande fortuna editoriale e oggi giace nel
dimenticatoio.
Nonostante la derivazione naturalista, il testo conserva alte qualità
letterarie e finezza psicologica nel tratteggiare la figura dell’assassino.
Con 100mila copie vendute solo in Italia, De Marchi si tolse parecchi
sassolini dalle scarpe e si prese la sua rivincita verso una letteratura elitaria e alto-borghese.
Libro: Il cappello del prete (ristampato da Avagliano, Morganti Scrivere e
altri meritevoli editori)
Autore: Emilio De Marchi
L’ITALIA CRIMINALE TRA 800 E 900. ALLA RISCOPERTA DELLA CRONACA NERA
Sul finire del secolo scorso il grande pubblico rivolge sempre maggiore
attenzione alla cronaca nera e al crimine dilagante nella nostra penisola. Ma
mentre i polizieschi di Gaboriau e di Doyle sono venduti in tutto il mondo, in
Italia che succede?
Alcune testate giornalistiche hanno il ruolo che oggi
ricoprono talk show come Porta
a porta. I periodici “La Corte d’Assise”, “I Grandi Processi Illustrati” e
“Il Corriere Illustrato dei Processi Celebri Contemporanei”, corredati da
suggestivi disegni, raccontano i dibattimenti processuali per soddisfare la
morbosa curiosità della gente. Fuori dai tribunali una folla numerosa ascolta
le arringhe di istrionici avvocati e le ricostruzioni dei grandi drammi.
A
cavallo tra 800 e 900 c’è poi da registrare un triste record. Nel 1898 ci sono un
milione di condanne al carcere, un terzo delle quali per delitti di sangue, e per
capire l’entità del fenomeno basti dire che gli omicidi commessi in Italia in
un anno superano quelli consumati in Germania, Austria, Francia e Inghilterra
messi insieme.
Cesare Lombroso, autore de L’uomo delinquente (1876), fonda
la Scuola positiva del diritto penale, studia da vicino il mondo criminale e
porta al genere letterario ulteriori spunti di discussione con le sue teorie.
Sembra strano che in questo contesto così infuocato la nostra letteratura non
si doti di giallisti propri e non ci siano autori italiani a romanzare la cronaca
di quei tempi. Le trame poliziesche restano infatti appannaggio di scrittori
stranieri.
IL PRIMO POLIZIESCO ITALIANO REGISTRA UN SUCCESSO SENZA PRECEDENTI
L’unica robusta eccezione è Il
cappello del prete di Emilio De Marchi, considerato da molti il primo autore poliziesco in Italia e il capostipite di un genere mai frequentato alle nostre latitudini.
Uscito a puntate nel 1887 nelle appendici del quotidiano milanese “L’Italia
del Popolo”, Il cappello del prete conosce un successo straordinario,
vendendo migliaia di copie nei pochi mesi dall’uscita in libreria, in un volume
raccolto dall’editore Treves, ed è tradotto come best-seller in Ungheria, Germania, Francia,
Inghilterra, Danimarca e Stati Uniti.
Il cappello del prete, secondo le stesse parole dello stesso De Marchi, offre una
dimostrazione tangibile di due teorie, che cioè i romanzieri italiani siano in
grado di competere con i colleghi d’Oltralpe per andare incontro ai desideri
dei lettori, e che il pubblico vitale e onesto possa appassionarsi ad opere di
alto livello qualitativo e non sia una bestia vorace che si ciba di sozzure. In
una sua nota, conclude De Marchi, «non è male di tanto in tanto scrivere anche
per i lettori».
Per un crudele paradosso, il noir cadde nel dimenticatoio per gran parte del '900,
fino a che Sandro Bolchi nel 1970 non realizzò una fiction in tre puntate
ricavata dal romanzo:
UN MILANESE CHE RACCONTA NAPOLI
De Marchi maneggia un intricato plot mantenendosi su un livello linguistico
piano e accattivante. Nonostante la pittoresca ambientazione partenopea e l’influenza
della nazional-popolare Serao, non si lascia tentare dal bozzettismo. Alterna i
toni cupi del romanzo nero con la divertita leggerezza dello sfondo popolaresco.
Restano indimenticabili le scene di superstizione, la vincita al lotto di un
gruppo di poveracci, le descrizioni della marina e della misteriosa villa vesuviana
dei Santafusca, il tema del soprannaturale che riecheggia ossessivo tra le
pagine.
UN ROMANZO SULLA COLPA E SUL CASTIGO
Ispirato da Delitto e castigo, l’autore lombardo riecheggia le
grandi esperienze di Manzoni, Dickens e Guy de Maupassant rappresentando con
forza espressiva il conflitto di coscienza di un assassino. Il tema della detection non è centrale quanto la
descrizione del travaglio interiore di chi uccide.
Il barone Coriolano di Santafusca, erede di una nobiltà meridionale
derelitta, è carico di debiti di gioco e trascinato alla rovina da una vita
dissipata. Matura la decisione di uccidere Cirillo, un sacerdote dedito
all’usura, per impossessarsi dei suoi beni. Per giustificare il proprio gesto
si fa forte di un credo materialista, che definisce «darwiniano»: se l’uomo è
destinato a scomparire, se non esiste alcuna vita dopo la morte e l’anima è
solo un’ubbia creata per abbindolare i semplici, perché non risolvere i propri
guai eliminando un individuo che, tra l’altro, è addirittura un microbo e un
parassita della società?
Tutto sembra filare liscio ma, come un demone maligno, il cappello della
vittima ricompare a tormentare l’assassino.
Schiacciato dal senso di colpa, il barone deve vedersela con l’esigenza di
moralità della coscienza e con un invincibile rimorso che lo scuote nel
profondo, mentre un avvocato astuto e zelante, don Ciccio Scuoto, «né un uomo
superiore ai tempi suoi, né un uomo migliore dei suoi simili», fa pressioni sul
giudice istruttore affinché chiarisca il mistero della scomparsa del prete e si
improvvisa investigatore vista la sfiducia nell’amministrazione della
giustizia.
«Secondo don Ciccio le cose erano state condotte pessimamente, col
solito bislacco sistema delle procedure nostre, con troppo intervento dei
giornalisti, con troppo pettegolezzo, dando tempo al vero colpevole (ed egli
sentiva che c’era un vero colpevole) di mettersi in salvo e di deludere le
ricerche della polizia».
Alla vista dell’assassino, l’avvocato crede alle strane impressioni che
riceve dal suo intuito. «Dal modo in cui il barone arrivò davanti alla porta,
dal modo in cui puntò il bastone alla colonna, con cui prese d’assalto lo
scalone, dall’eleganza esagerata del suo vestito, dal passo legato, sconvolto,
da un non so che insomma d’indecifrabile, e forse anche d’irragionevole che
urtò i suoi nervi, don Ciccio fu tratto a seguire quell’uomo, come si segue un lumicino,
che spunti improvvisamente nel fitto della boscaglia, dove ci si raggiri da
cinque o sei ore senza bussola e con disperazione. Non è il caso di credere
troppo a segreti istinti e nemmeno a misteriose leggi fisiologiche; basta per
noi ammettere in queste circostanze un fino istinto delle cose e delle
condizioni loro per spiegare come don Ciccio potesse seguire il barone di
Santafusca fin quasi all’uscio del giudice istruttore».
Una maledizione, insomma, aleggia sul colpevole. Il fantasma del dubbio,
più potente della legge degli uomini, aggredisce il barone che, in preda a
un’angoscia crescente, è condotto sino al baratro della follia e non potrà fare
a meno di confessare il proprio delitto per liberarsi del peso.
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