sabato 28 luglio 2012

LO SCRITTORE PIU' VENDUTO DI TUTTI I TEMPI. LA FERVIDA MENTE CREATIVA CHE CATTURO' L'IMMAGINAZIONE DEL MONDO INTERO.


L’uomo che inventò Sherlock Holmes e non riuscì a liberarsi dalla sua creatura letteraria. 
Storia di un successo e di una maledizione.










 
Non c’è personaggio più noto e forse più rappresentato di Sherlock Holmes. Nei videogiochi, in serie di animazione e persino nei fumetti (appare ad esempio nella graphic novel di Alan Moore La Lega degli straordinari gentlemen) c’è sempre lui, il famoso detective di Baker Street.

Tra le trasposizioni televisive è arrivata alla terza stagione Elementary, dove le avventure di Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch) e dell’assistente Watson (Martin Freeman) si svolgono nella Londra odierna. Serie che ha conosciuto anche un adattamento americano, con le ambientazioni modaiole di Manhattan e una maggiore spruzzatina di sesso e droga.

Ma è stato Guy Ritchie con le sue mirabolanti e indiavolate regie cinematografiche a svecchiare le storie dell’investigatore.
Sherlock Holmes - Gioco di ombre (2011), con Downey Jr. e Jude Law, replica il successo del primo film e mostra come Holmes sventa la minaccia di una serie di attentati che potrebbero far saltare i delicati equilibri tra le superpotenze europee.

Il creatore di questo straordinario personaggio che oggi continua a dilagare in ogni formato di intrattenimento certo mai si sarebbe aspettato una fama planetaria e un successo così durevole. Ma chi è Arthur Conan Doyle? E perché il tranquillo dottore scozzese che ha inventato il detective londinese arriva a odiare Holmes con tutte le sue forze? Perché ad un certo punto cerca di ribellarsi alla sua creatura letteraria, al personaggio che gli ha dato una immensa popolarità?

Medico condotto nella provincia di Portsmouth e autore di racconti inediti, Doyle inganna il tempo, nelle giornate in cui il suo ambulatorio è vuoto, scrivendo un romanzo sulle avventure di un consulente investigativo di Scotland Yard. Naturalmente è ignaro che così facendo sta per costruire il più grande mito letterario di tutti i tempi. «Sentivo – racconterà nella sua autobiografia Ucciderò Sherlock Holmes – d’essere in grado di comporre qualcosa di più fresco, di più vivo e, soprattutto, di più artistico. Gaboriau mi aveva attratto con la netta stesura delle sue trame, e il magistrale detective di Poe, Monsieur Dupin, era stato sin dall’adolescenza uno dei miei eroi prediletti. Non avrei potuto creare un personaggio interamente mio? Ripensai al mio vecchio maestro Joseph Bell, al suo viso aquilino, ai suoi modi strani, ai suoi sconcertanti espedienti nello scoprire particolari, e mi convinsi che se egli fosse stato detective avrebbe certo dato forma di scienza esatta alle sue interessanti, ma disordinate attitudini». 

Nasce Sherlock Holmes: appassionato di musica e violino, chimico dilettante, esperto di botanica, geologia, anatomia, in possesso di un sapere enciclopedico e pieno di alterigia. Holmes ha come amico e collaboratore il dottor Watson. Che è anche il narratore delle sue storie e ci presenta la scienza della deduzione incarnata dall’uomo con cui divide l’affitto di un appartamento al 221B di Baker Street. Watson racconta che Holmes è indifferente a letteratura, filosofia e astronomia, ignora la teoria copernicana così come i nomi dei politici dell’epoca. D’altronde il cervello umano è come un’angusta soffitta in cui riporre gli oggetti da utilizzare; se vi si ammassano ogni sorta di cianfrusaglie, è impossibile poi ritrovarle. Ecco perché il bravo operaio conserva solo attrezzi utili.  

Nel suo romanzo d’esordio Doyle sembra voler allontanare dal lettore i sospetti che abbia eletto come modello Poe e Gaboriau e mette in bocca al suo campione un sentimento di gelosia verso i colleghi che l’hanno preceduto sulla scena letteraria, con un curioso e moderno effetto metalinguistico. In un passaggio del romanzo, infatti, Holmes apostrofa Lecocq come un miserabile imbranato.

In un altro dialogo, Watson ammette: «Sa, lei mi ricorda il Dupin di Edgar Allan Poe. Non credevo che simili persone esistessero. – Senza dubbio, lei crede di farmi un complimento paragonandomi a Dupin. Ma, secondo la mia opinione, Dupin era un mediocre. Aveva una qualche capacità analitica, ma non era quel fenomeno che Poe sembrava considerarlo». 

Uno studio in rosso ci trasporta con forza in un regno dove l’immaginazione è al servizio dell’orrore e “ciò che è strano non va confuso con ciò che è misterioso”, dove il detective dipana il filo dell’omicidio e l’assenza di aspetti insoliti gli rendono il lavoro più difficile. In una casa abbandonata al numero 3 di Lauriston Gardens è rivenuto il cadavere di un signore ben vestito. Gli ispettori di Scotland Yard ricorrono all’aiuto di Holmes. Il bizzarro investigatore che ha già cooperato con la polizia comincia le indagini. Trotterella in silenzio per la stanza, sotto lo sguardo divertito degli uomini di Scotland Yard. Con un metro e una grossa lente d’ingrandimento individua e misura tracce invisibili ai comuni mortali. Si inginocchia, fischia, si sdraia, prorompe in grida di giubilo, raccoglie un mucchio di polvere che ripone in una busta. Una certa dose di scherno accompagna le sue manovre, ma quando comunica i suoi pensieri ai poliziotti, li lascia di stucco. «Dicono che il genio consista in una illimitata capacità di curare i particolari. E’ una pessima definizione, ma si applica al lavoro dell’investigatore… E dirò una cosa che può aiutarvi nelle indagini: l’assassino è un uomo. E’ alto oltre un metro e ottanta, è ancora giovane, ha i piedi piccoli per la sua statura, porta scarpe grossolane con la punta quadrata e, al momento del delitto, fumava sigari Trichiponoly… Con tutta probabilità, l’assassino ha il viso florido e le unghie della mano destra notevolmente lunghe».   

E non è finita qui. Dopo un primo delitto, ne arriva un secondo. Holmes ha le idee chiarissime e sulla scena del crimine annuncia ai poliziotti esterrefatti, che certo non stanno facendo una bella figura, di sapere il nome dell’assassino e di avere buone speranze di acciuffarlo. Naturalmente si assumerà la responsabilità in caso di fallimento. Perora si limita ad alimentare la curiosità di Scotland Yard tenendo tutti sulle spine. «All’inizio delle indagini non avete afferrato l’importanza dell’unico vero indizio che avevate sotto gli occhi. Per fortuna io, invece, l’ho notato e gli eventi che si sono succeduti da quel momento in poi sono serviti a confermare la mia prima supposizione e, anzi, ne sono stati la logica conseguenza». Holmes fa chiamare un corpulento cocchiere per trasportare un baule e poi gli serra le manette ai polsi, annunciando che è l’assassino. In effetti l’uomo confessa di avere ucciso le due persone per spirito di vendetta.

La seconda parte del libro fa un passo indietro nel tempo e racconta la storia di quest’uomo che si innamora di una bellissima ragazza dello Utah, terra colonizzata dai Mormoni che vi governano come spietati persecutori. L’organizzazione religiosa uccide chiunque fa resistenza alla loro Chiesa. Quando il Profeta, patriarca dei devoti, impone che la donna si sposi con uno dei giovani figli del potente clan, non accetta un rifiuto. La norma del loro codice è chiara: ogni fanciulla deve sposare uno degli Eletti. La fuga della donna assieme al padre viene punita con la morte. Nel corso degli anni seguenti l’uomo che la amava ha inseguito i due assassini, animato da una ferrea volontà e dall’intenzione di punirli.

Doyle fa svelare a Holmes chi è il colpevole a metà del libro. Un altro terzo serve ad illustrare al lettore perché il colpevole ha agito con tanta ostinazione e consumato la sua vendetta. Nel finale resta da capire come il detective è arrivato alla soluzione. Più del whodunit (chi è stato?) conta l’howdunit (come ha agito?), quale è stato il piano dell’assassino e come ha fatto il detective a smascherarlo. E’ l’equivalente di una puntata di CSI che ci dice dopo venti minuti chi è l’assassino e ci fa attendere il finale per capire come la Scientifica lo ha individuato. Il procedimento della suspense non è giocato fino in fondo. La sospensione verte sulla metodologia investigativa, non sulla scoperta del criminale. La costruzione dell’intreccio evidenzia il fiato corto della narrazione e la sua utilizzazione per le uscite spezzettate a episodi sui giornali. Il giallo sembra ancora ostaggio degli schemi del feilleuton. E secondo questa progressione che si avvita su se stessa, mostrando un flashback e tornando al tempo presente, la maggiore sorpresa, per il lettore, è il momento in cui il mago svela il suo trucco, il modo in cui ha tirato fuori il coniglio dal suo cilindro. Nelle ultime pagine Holmes ricostruisce per tappe i ragionamenti che l’hanno condotto all’arresto del vetturino. Dice di avere notato vicino alla casa della prima vittima le impronte di una carrozza, una vettura di piazza londinese che ha la distanza tra le ruote meno ampia. Poi ha ricavato un identikit grazie ad altre tracce disseminate dall’assassino. «Organizzai la mia squadra investigativa di scugnizzi – racconta Holmes – inviandoli sistematicamente da ogni proprietario di carrozze a Londra, fino a che avessero scovato l’individuo che cercavo».     

Nonostante i meriti della scrittura e le interessanti trovate, il manoscritto del romanzo viene respinto da tre importanti editori, fino a che Doyle decide di pubblicarlo a un compenso irrisorio. Pubblicato a puntate nel 1887 su un almanacco natalizio, Uno studio in rosso non riscuote consensi e passa inosservato. Tre anni dopo, un lungimirante editore di Filadelfia (la città dove il giallo ha esordito e che torna nella storia del genere ancora una volta) legge il testo e resta colpito. Contatta Doyle e gli chiede di scrivere una seconda avventura di Holmes. Il periodico americano “Lippincott Monthly Magazine” ha una succursale inglese, dove esce a puntate Il segno dei quattro. E’ l’inizio della fortuna planetaria di un fenomeno che non conoscerà soste. Dal 1891 Doyle collabora con il celebre mensile illustrato “Strand Magazine”, che gli chiede in continuazione racconti di Holmes e li correda con i disegni di Sidney Paget. Lo scrittore scozzese si sente schiavo della sua creatura. Deve narrare le stesse storie senza potersi cimentare in altro, come ad esempio il genere storico. Odia il personaggio che pure gli ha dato la fama. Esasperato, lo elimina con un incidente ne Il problema finale facendolo cadere dalle cascate di Reichenbach. Ma il cordoglio dei lettori, le pressioni dell’editore, le preghiere della madre, due interrogazioni parlamentari e la protesta degli ammiratori che minacciano di bloccare la nazione lo costringono a escogitare un trucco facendo tornare in vita Holmes ne Il mastino dei Baskerville, in cui si trova alle prese con le apparizioni di un cane infernale nella brughiera del Devonshire, e poi in numerosi altri racconti. In questo modo il detective dal buffo cappello e dalla grossa pipa acquista un’aura di immortalità ed entra di prepotenza nell’immaginario planetario.

C’è chi, come l’esperto di letteratura gotica David Punter, classifica i suoi racconti come appartenenti al genere dell’orrore, altri critici inseriscono i gialli di Doyle in una zona di confine tra diversi generi. Non deve stupire dunque la sua parallela produzione di fantascienza e del soprannaturale, e non deve meravigliare che negli ultimi anni di vita lo scrittore, vicino al collasso di nervi, si dedichi al paranormale con conferenze, articoli e studi. Non è un cambiamento di prospettiva radicale per l’inventore di Holmes, il campione dei metodi scientifici, abbracciare fervidamente la causa dell’occultismo. Doyle infatti ha sempre scritto sull’orlo di un abisso. Il poliziesco richiede un controllo totale sulla propria immaginazione, l’esercizio di una sorveglianza maniacale sulla trama. Ma questa rigidità, che disperde molte energie, nasconde un atteggiamento di difesa. Dietro l’iper-vigilanza del mestierante si cela la paura di smarrire il senno, di non poter ricondurre l’irrazionale ad un ragionamento analitico. Un giallista all’opera è costantemente affacciato su un baratro, impegnato a non abbandonare la sua sicurezza razionale, anche se questo dilapiderà le proprie forze. Guai a rinunciare alla Logica del suo investigatore. E’ l’unica cosa che lo trattenga dal precipitare nel caos e nella schizofrenia.

Pascal ci mette in guardia: «L’ultimo passo della ragione è riconoscere che vi sono infiniti mondi che la superano». Il confine tra folle e ragionevole, tra reale e fantastico, tra scientifico e magico, è molto più sottile di quello che comunemente si crede. Un fatto inspiegabile può causare il panico, prima che la mente umana dissolva le tenebre. Doyle sa bene che il suo Holmes, lavorando in un totale isolamento, risolve enigmi per amore della decifrazione. L’intelletto del personaggio, che l’autore detesta, è il surrogato di qualcosa che un giorno potrebbe farlo cadere nel Grande Nulla. Se Sherlock Holmes mancasse di risolvere un enigma, l’intera umanità perderebbe la fiducia nella Logica.

In un’epoca assetata di soprannaturale, disponibile a certificare l’esistenza dell’aldilà con gli strumenti a disposizione della scienza, Conan Doyle si converte allo spiritismo e si dedica febbrilmente a diffondere il nuovo verbo. Interessato alla metafisica come risarcimento per la sua fede ormai perduta, compone il saggio Storia dello spiritismo avventurandosi in lande che lo stesso Holmes avrebbe timore di varcare. Compie le sue ricerche spirituali perché non si arrende davanti a ciò che è sconosciuto e che potrebbe nascondere dietro di sé, oltre gli spifferi del teatro della vita, un mondo scisso. Cerca di illuminare le porzioni inesplicabili dell’oscurità. Vorrebbe smettere di tremare davanti al prodigio, smettere di avere paura per le infiltrazioni del fantastico, chiedendo una spiegazione che lo salvi. 

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