Storia di un successo e di una maledizione.
Non c’è
personaggio più noto e forse più rappresentato di Sherlock Holmes. Nei
videogiochi, in serie di animazione e persino nei fumetti (appare ad esempio
nella graphic novel di Alan Moore La Lega
degli straordinari gentlemen) c’è sempre lui, il famoso detective di Baker
Street.
Tra le
trasposizioni televisive è arrivata alla terza stagione Elementary, dove le avventure di Sherlock Holmes (Benedict
Cumberbatch) e dell’assistente Watson (Martin Freeman) si svolgono nella Londra
odierna. Serie che ha conosciuto anche un adattamento americano, con le
ambientazioni modaiole di Manhattan e una maggiore spruzzatina di sesso e
droga.
Ma è
stato Guy Ritchie con le sue mirabolanti e indiavolate regie cinematografiche a
svecchiare le storie dell’investigatore.
Sherlock
Holmes - Gioco di ombre (2011), con Downey Jr. e Jude Law, replica il
successo del primo film e mostra come Holmes sventa la minaccia di una serie di
attentati che potrebbero far saltare i delicati equilibri tra le superpotenze
europee.
Il
creatore di questo straordinario personaggio che oggi continua a dilagare in
ogni formato di intrattenimento certo mai si sarebbe aspettato una fama
planetaria e un successo così durevole. Ma chi è Arthur Conan Doyle? E perché il
tranquillo dottore scozzese che ha inventato il detective londinese arriva a odiare
Holmes con tutte le sue forze? Perché ad un certo punto cerca di ribellarsi
alla sua creatura letteraria, al personaggio che gli ha dato una immensa
popolarità?
Medico
condotto nella provincia di Portsmouth e autore di racconti inediti, Doyle
inganna il tempo, nelle giornate in cui il suo ambulatorio è vuoto, scrivendo
un romanzo sulle avventure di un consulente investigativo di Scotland Yard.
Naturalmente è ignaro che così facendo sta per costruire il più grande mito
letterario di tutti i tempi. «Sentivo
– racconterà nella sua autobiografia Ucciderò Sherlock Holmes – d’essere
in grado di comporre qualcosa di più fresco, di più vivo e, soprattutto, di più
artistico. Gaboriau mi aveva attratto con la netta stesura delle sue trame, e
il magistrale detective di Poe, Monsieur Dupin, era stato sin dall’adolescenza
uno dei miei eroi prediletti. Non avrei potuto creare un personaggio
interamente mio? Ripensai al mio vecchio maestro Joseph Bell, al suo viso
aquilino, ai suoi modi strani, ai suoi sconcertanti espedienti nello scoprire
particolari, e mi convinsi che se egli fosse stato detective avrebbe certo dato
forma di scienza esatta alle sue interessanti, ma disordinate attitudini».
Nasce Sherlock
Holmes: appassionato di musica e violino, chimico dilettante, esperto di
botanica, geologia, anatomia, in possesso di un sapere enciclopedico e pieno di
alterigia. Holmes ha come amico e collaboratore il dottor Watson. Che è anche
il narratore delle sue storie e ci presenta la scienza della deduzione
incarnata dall’uomo con cui divide l’affitto di un appartamento al 221B di
Baker Street. Watson racconta che Holmes è indifferente a letteratura,
filosofia e astronomia, ignora la teoria copernicana così come i nomi dei
politici dell’epoca. D’altronde il cervello umano è come un’angusta soffitta in
cui riporre gli oggetti da utilizzare; se vi si ammassano ogni sorta di
cianfrusaglie, è impossibile poi ritrovarle. Ecco perché il bravo operaio
conserva solo attrezzi utili.
Nel suo
romanzo d’esordio Doyle sembra voler allontanare dal lettore i sospetti che
abbia eletto come modello Poe e Gaboriau e mette in bocca al suo campione un
sentimento di gelosia verso i colleghi che l’hanno preceduto sulla scena
letteraria, con un curioso e moderno effetto metalinguistico. In un passaggio
del romanzo, infatti, Holmes apostrofa Lecocq come un miserabile imbranato.
In un altro dialogo,
Watson ammette: «Sa, lei mi ricorda il Dupin di Edgar Allan Poe. Non credevo che simili
persone esistessero. –
Senza dubbio, lei crede di farmi un complimento paragonandomi a Dupin. Ma,
secondo la mia opinione, Dupin era un mediocre. Aveva una qualche capacità
analitica, ma non era quel fenomeno che Poe sembrava considerarlo».
Uno
studio in rosso ci
trasporta con forza in un regno dove l’immaginazione è al servizio dell’orrore
e “ciò che è strano non va confuso con ciò che è misterioso”, dove il detective
dipana il filo dell’omicidio e l’assenza di aspetti insoliti gli rendono il
lavoro più difficile. In una casa abbandonata al numero 3 di Lauriston Gardens
è rivenuto il cadavere di un signore ben vestito. Gli ispettori di Scotland
Yard ricorrono all’aiuto di Holmes. Il bizzarro investigatore che ha già
cooperato con la polizia comincia le indagini. Trotterella in silenzio per la
stanza, sotto lo sguardo divertito degli uomini di Scotland Yard. Con un metro
e una grossa lente d’ingrandimento individua e misura tracce invisibili ai
comuni mortali. Si inginocchia, fischia, si sdraia, prorompe in grida di
giubilo, raccoglie un mucchio di polvere che ripone in una busta. Una certa
dose di scherno accompagna le sue manovre, ma quando comunica i suoi pensieri
ai poliziotti, li lascia di stucco. «Dicono che il genio consista in una
illimitata capacità di curare i particolari. E’ una pessima definizione, ma si
applica al lavoro dell’investigatore… E dirò una cosa che può aiutarvi nelle
indagini: l’assassino è un uomo. E’ alto oltre un metro e ottanta, è ancora
giovane, ha i piedi piccoli per la sua statura, porta scarpe grossolane con la
punta quadrata e, al momento del delitto, fumava sigari Trichiponoly… Con tutta
probabilità, l’assassino ha il viso florido e le unghie della mano destra
notevolmente lunghe».
E non è
finita qui. Dopo un primo delitto, ne arriva un secondo. Holmes ha le idee
chiarissime e sulla scena del crimine annuncia ai poliziotti esterrefatti, che
certo non stanno facendo una bella figura, di sapere il nome dell’assassino e
di avere buone speranze di acciuffarlo. Naturalmente si assumerà la
responsabilità in caso di fallimento. Perora si limita ad alimentare la
curiosità di Scotland Yard tenendo tutti sulle spine. «All’inizio delle
indagini non avete afferrato l’importanza dell’unico vero indizio che avevate
sotto gli occhi. Per fortuna io, invece, l’ho notato e gli eventi che si sono
succeduti da quel momento in poi sono serviti a confermare la mia prima
supposizione e, anzi, ne sono stati la logica conseguenza». Holmes fa chiamare
un corpulento cocchiere per trasportare un baule e poi gli serra le manette ai
polsi, annunciando che è l’assassino. In effetti l’uomo confessa di avere
ucciso le due persone per spirito di vendetta.
La
seconda parte del libro fa un passo indietro nel tempo e racconta la storia di
quest’uomo che si innamora di una bellissima ragazza dello Utah, terra
colonizzata dai Mormoni che vi governano come spietati persecutori.
L’organizzazione religiosa uccide chiunque fa resistenza alla loro Chiesa.
Quando il Profeta, patriarca dei devoti, impone che la donna si sposi con uno
dei giovani figli del potente clan, non accetta un rifiuto. La norma del loro
codice è chiara: ogni fanciulla deve sposare uno degli Eletti. La fuga della
donna assieme al padre viene punita con la morte. Nel corso degli anni seguenti
l’uomo che la amava ha inseguito i due assassini, animato da una ferrea volontà
e dall’intenzione di punirli.
Doyle
fa svelare a Holmes chi è il
colpevole a metà del libro. Un altro terzo serve ad illustrare al lettore perché il colpevole ha agito con tanta
ostinazione e consumato la sua vendetta. Nel finale resta da capire come il detective è arrivato alla
soluzione. Più del whodunit (chi è
stato?) conta l’howdunit (come ha
agito?), quale è stato il piano dell’assassino e come ha fatto il detective a
smascherarlo. E’ l’equivalente di una puntata di CSI che ci dice dopo venti minuti chi è l’assassino e ci fa
attendere il finale per capire come la Scientifica lo ha individuato. Il
procedimento della suspense non è giocato fino in fondo. La sospensione verte
sulla metodologia investigativa, non sulla scoperta del criminale. La
costruzione dell’intreccio evidenzia il fiato corto della narrazione e la sua
utilizzazione per le uscite spezzettate a episodi sui giornali. Il giallo
sembra ancora ostaggio degli schemi del feilleuton.
E secondo questa progressione che si avvita su se stessa, mostrando un flashback e tornando al tempo presente,
la maggiore sorpresa, per il lettore, è il momento in cui il mago svela il suo
trucco, il modo in cui ha tirato fuori il coniglio dal suo cilindro. Nelle
ultime pagine Holmes ricostruisce per tappe i ragionamenti che l’hanno condotto
all’arresto del vetturino. Dice di avere notato vicino alla casa della prima
vittima le impronte di una carrozza, una vettura di piazza londinese che ha la
distanza tra le ruote meno ampia. Poi ha ricavato un identikit grazie ad altre
tracce disseminate dall’assassino. «Organizzai la mia squadra investigativa di
scugnizzi – racconta Holmes – inviandoli sistematicamente da ogni proprietario
di carrozze a Londra, fino a che avessero scovato l’individuo che
cercavo».
Nonostante
i meriti della scrittura e le interessanti trovate, il manoscritto del romanzo
viene respinto da tre importanti editori, fino a che Doyle decide di
pubblicarlo a un compenso irrisorio. Pubblicato a puntate nel 1887 su un
almanacco natalizio, Uno studio in rosso non riscuote consensi e passa
inosservato. Tre anni dopo, un lungimirante editore di Filadelfia (la città
dove il giallo ha esordito e che torna nella storia del genere ancora una
volta) legge il testo e resta colpito. Contatta Doyle e gli chiede di scrivere
una seconda avventura di Holmes. Il periodico americano “Lippincott Monthly
Magazine” ha una succursale inglese, dove esce a puntate Il segno dei
quattro. E’ l’inizio della fortuna planetaria di un fenomeno che non
conoscerà soste. Dal 1891 Doyle collabora con il celebre mensile illustrato
“Strand Magazine”, che gli chiede in continuazione racconti di Holmes e li
correda con i disegni di Sidney Paget. Lo scrittore scozzese si sente schiavo
della sua creatura. Deve narrare le stesse storie senza potersi cimentare in
altro, come ad esempio il genere storico. Odia il personaggio che pure gli ha
dato la fama. Esasperato, lo elimina con un incidente ne Il problema finale
facendolo cadere dalle cascate di Reichenbach. Ma il cordoglio dei lettori, le
pressioni dell’editore, le preghiere della madre, due interrogazioni
parlamentari e la protesta degli ammiratori che minacciano di bloccare la
nazione lo costringono a escogitare un trucco facendo tornare in vita Holmes ne
Il mastino dei Baskerville, in cui si trova alle prese con le
apparizioni di un cane infernale nella brughiera del Devonshire, e poi in
numerosi altri racconti. In questo modo il detective dal buffo cappello e dalla
grossa pipa acquista un’aura di immortalità ed entra di prepotenza
nell’immaginario planetario.
C’è
chi, come l’esperto di letteratura gotica David Punter, classifica i suoi
racconti come appartenenti al genere dell’orrore, altri critici inseriscono i
gialli di Doyle in una zona di confine tra diversi generi. Non deve stupire
dunque la sua parallela produzione di fantascienza e del soprannaturale, e non deve
meravigliare che negli ultimi anni di vita lo scrittore, vicino al collasso di
nervi, si dedichi al paranormale con conferenze, articoli e studi. Non è un
cambiamento di prospettiva radicale per l’inventore di Holmes, il campione dei
metodi scientifici, abbracciare fervidamente la causa dell’occultismo. Doyle
infatti ha sempre scritto sull’orlo di un abisso. Il poliziesco richiede un
controllo totale sulla propria immaginazione, l’esercizio di una sorveglianza
maniacale sulla trama. Ma questa rigidità, che disperde molte energie, nasconde
un atteggiamento di difesa. Dietro l’iper-vigilanza del mestierante si cela la
paura di smarrire il senno, di non poter ricondurre l’irrazionale ad un
ragionamento analitico. Un giallista all’opera è costantemente affacciato su un
baratro, impegnato a non abbandonare la sua sicurezza razionale, anche se
questo dilapiderà le proprie forze. Guai a rinunciare alla Logica del suo
investigatore. E’ l’unica cosa che lo trattenga dal precipitare nel caos e
nella schizofrenia.
Pascal
ci mette in guardia: «L’ultimo passo della ragione è riconoscere che vi sono
infiniti mondi che la superano». Il confine tra folle e ragionevole, tra reale
e fantastico, tra scientifico e magico, è molto più sottile di quello che
comunemente si crede. Un fatto inspiegabile può causare il panico, prima che la
mente umana dissolva le tenebre. Doyle sa bene che il suo Holmes, lavorando in
un totale isolamento, risolve enigmi per amore della decifrazione. L’intelletto
del personaggio, che l’autore detesta, è il surrogato di qualcosa che un giorno
potrebbe farlo cadere nel Grande Nulla. Se Sherlock Holmes mancasse di
risolvere un enigma, l’intera umanità perderebbe la fiducia nella Logica.
In
un’epoca assetata di soprannaturale, disponibile a certificare l’esistenza
dell’aldilà con gli strumenti a disposizione della scienza, Conan Doyle si
converte allo spiritismo e si dedica febbrilmente a diffondere il nuovo verbo.
Interessato alla metafisica come risarcimento per la sua fede ormai perduta,
compone il saggio Storia dello spiritismo
avventurandosi in lande che lo stesso Holmes avrebbe timore di varcare. Compie
le sue ricerche spirituali perché non si arrende davanti a ciò che è
sconosciuto e che potrebbe nascondere dietro di sé, oltre gli spifferi del
teatro della vita, un mondo scisso. Cerca di illuminare le porzioni
inesplicabili dell’oscurità. Vorrebbe smettere di tremare davanti al prodigio,
smettere di avere paura per le infiltrazioni del fantastico, chiedendo una
spiegazione che lo salvi.
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