
IL LOCKED ROOM MURDER - DALLA FINE DELL'OTTOCENTO AGLI ANNI '40 - LA STORIA DI UN SOTTOGENERE POLIZIESCO DI INDUBBIA EFFICACIA
Qual è l’omicidio che si presenta a
prima vista “impossibile” da risolvere? Quale è il crimine che la polizia non sa spiegarsi, per le condizioni stesse in cui è
stato realizzato?
Gli appassionati del genere giallo risponderebbero che stiamo parlando
di un crimine commesso in una stanza chiusa dall’interno. Dove nessuno è
entrato. A parte la vittima, che però non parla perché è passata nel regno dei
morti.
Perché
l’assassino non ha lasciato tracce del suo passaggio? In che modo è penetrato nella camera se era sigillata e la porta non presenta segni di scasso? Un essere
umano può passare attraverso le pareti e svanire nel nulla? Siamo in presenza di un fenomeno paranormale? Chi
ci dice come sono andate le cose?
“Naturalmente io so chi è l’assassino, mon ami”, affermerebbe Hercule Poirot. E
infatti l’eroe, il solito immancabile detective dal proverbiale fiuto, ha un genio talmente
smodato da scoprire che non ci sono elementi inspiegabili, da scartare l’ipotesi
che l’assassino appartenga al mondo immateriale degli spiriti e ricondurre i
fatti ad un’origine meschinamente umana.
La
situazione del “delitto della camera chiusa”, cioè del vile assassinio che avviene
dentro una stanza impenetrabile, costituisce un genere nel genere e, secondo il
volume di Adey Locked Room Murders and
Other Impossible Crimes, è uno stratagemma adottato da duemila romanzi e
racconti.
Questo sottogenere viene considerato da molti l’espressione matura del poliziesco, molto di più di un
semplice indovinello, perché lascia il lettore incerto sino alla fine sulla veridicità
e sulla consistenza dei fatti che gli sono stati raccontati. Durante lo
sviluppo del “giallo della camera chiusa” serpeggia un clima di incredulità,
che nelle ultime pagine si tramuta in un netto rifiuto del soprannaturale a
favore della razionalità con cui l’investigatore ricostruisce gli eventi.
Se
tralasciamo il racconto di Le Fanu Passage
in the Secret History of an Irish Countess, il primo mistero della stanza
chiusa coincide con la nascita del giallo.

Il vero
artefice del successo del sottogenere è senza dubbio Israel Zangwill con Il grande mistero di Bow. Intellettuale
inglese di origini russe, Zangwill ha un destino curioso. Inizia a scrivere la
sua opera con l’intenzione di parodiare le convenzioni del genere, ma dopo che
nel 1892 esce a puntate riscuotendo una popolarità immensa, entra nella storia
del giallo grazie al suo unico romanzo.
Siamo
in un quartiere povero di Londra. Il signor Constant ha un mal di denti e va a
letto, chiedendo alla proprietaria di casa, la signora Drabdump, di essere
svegliato presto. Questa, alle sei e quarantacinque del mattino di una nebbiosa
giornata, bussa alla porta, ma non ottiene risposta, pertanto si reca in cucina
a preparare la colazione. Alle sette e mezzo l’inquilino non è ancora sveglio,
quindi la Drabdump ribussa. Anche questa volta non riceve risposta. La signora
pensa che abbia deciso di dormire un po’ di più. Quando si son fatte le otto e
trenta, un presentimento si insinua nella mente della donna, che decide di
chiedere aiuto a Grodman, un investigatore oramai in pensione, che abita
dall’altro lato della strada. Giunti davanti alla porta, il detective prova a
girare la maniglia, ma è chiusa, e l’unica cosa da fare, a questo punto, è
forzarla. La stanza appare silenziosa e solo un filo di luce entra dalle
finestre sbarrate. Improvvisamente la macabra scoperta: Constant giace nel letto
con la gola tagliata. L’ipotesi di un suicidio viene subito scartata, ma anche
quella di omicidio è improbabile. La stanza era sprangata dall’interno, con un
camino troppo piccolo per farvi passare una persona.
Così
inizia la trama del romanzo di Zangwill. E il leggendario finale ci regala un
colpo da ko, spiegando come il povero Constant sia stato drogato e la sua
uccisione sia avvenuta soltanto dopo che la porta era stata buttata giù. Il
delitto è stato consumato quando la stanza chiusa è stata violata. In realtà a
piantare un ago avvelenato nel corpo di Constant è stata la signora Drabdump
mentre fingeva di soccorrerlo.

Nel
racconto Il pugnale d’alluminio (1909)
di Freeman l’omicidio sembra commesso dentro la stanza. Poi scopriamo che
l’arma del delitto, il pugnale del titolo, è stato sparato con un fucile
dall’esterno ed è passato nella camera attraverso una sorta di feritoia.
Edgar
Wallace ne L’enigma dello spillo
(1929) elabora un metodo sconcertante per far commettere un omicidio.
L’assassino uccide un uomo in una stanza. Poi con calma piazza uno spillo
robusto al centro del tavolo. Lega alla capocchia dello spillo un filo che
passa nell’occhio di una chiave e fa attraversare una griglia dell’aerazione.
Esce dalla stanza e dall’esterno tira la chiave, legata al filo, per infilarla
nella serratura. Sempre grazie a questo arzigogolato sistema fa scivolare la
chiave sul tavolo, infine esercita un piccolo strattone e stacca lo
spillo.
Inconsueta
è invece la soluzione di S.S. Van Dine ne Il
mistero della canarina assassinata (1930). Le circostanze dell’omicidio gettano
i tutori della legge in uno stato di scoraggiante oscurità e confusione,
rivelando «molti recessi bui della misteriosa natura umana» e «la strana,
satanica sottigliezza di una mente resa acuta da una disperazione tragica». Ma
si vedrà che la camera è solo apparentemente chiusa dal di dentro e l’assassino
ha “truccato” la porta con l’intento di farla sembrare serrata e l’ha aperta
attraverso un complesso sistema di spilli e cordoncini che fanno leva sul
paletto e lo costringono a scorrere.
David
Dannay e Manfred Bennington Lee spingono sul pedale dell’inventiva sino al
limite massimo consentito, sfidando ogni plausibilità, quando in Delitto alla rovescia (1934) fanno
trovare il cadavere di uno sconosciuto in una stanza la cui unica porta aperta
è stata sempre sorvegliata, e al cui interno tutto è rinvenuto capovolto, dai
quadri alle pareti fino ai vestiti dell’uomo ucciso, giacca, scarpe, calze,
pantaloni, indossati alla rovescia. Ellery Queen scopre che il morto è un prete
e l’assassino ha invertito l’arredamento della stanza e tutti gli abiti della
vittima per coprire l’unico capo che un sacerdote porta alla rovescia, cioè il
colletto. Che siamo all’interno di un gioco squisitamente intellettuale, lo
ribadisce il protagonista detective, Queen, che non esita a interrompere la
storia per avvertire il lettore che può considerarsi in possesso delle stesse
informazioni che ha lui ed espone la sua filosofia investigativa con
spensierata lucidità. «Il mio lavoro è fatto non con esseri umani, ma con
simboli… mi sono sempre rifiutato di cogliere l’aspetto umano del problema, lo
tratto solo come una questione di Matematica».
Sulla
base di un recente referendum di critici, il capolavoro della camera chiusa è considerato
in modo unanime il romanzo Le tre bare
(1935), di John Dickson Carr, che contiene, nel secondo capitolo, una vera e
propria trattazione sull’argomento.
« – Ora
vi farò una conferenza – ripeté inesorabilmente il dottor Fell sulla meccanica
generale e lo svolgimento della situazione nota, nelle storie poliziesche, come
“la camera chiusa”.
–
Uhm.
Tutti quelli che si rifiutano possono saltare a pie’ pari questo capitolo».
Il brillante Fell,
protagonista del romanzo, prima ancora di cominciare le indagini, si lancia in
una ardita disquisizione teorica. Carr gioca apertamente con il lettore,
invitandolo a sciogliere il rebus prima di Fell. L’inventore dell’enigma
sollecita il suo pubblico a leggere il romanzo con attenzione e a cogliere ogni
indizio, provando a indovinare la cervellotica soluzione. Ormai il sottogenere
è diventato scuola compositiva, basata su precise atmosfere e ingredienti, e si
appella ad una curiosa “interattività”, un patto di complicità con chi legge.
Questa cristallizzazione del topos narrativo vale una lunga
digressione che ha un sapore autocelebrativo e che non esclude discussioni
letterarie.
« – Ma se volete
analizzare situazioni impossibili perché parlare di romanzi polizieschi?
–
Perché
– rispose tranquillamente il dottore – siamo in una storia poliziesca e non
dobbiamo ingannare il lettore fingendo di non esserci. Non dobbiamo inventare
scuse elaborate per tirar dentro una discussione sui romanzi polizieschi».
Ma di
cosa tratta precisamente Le tre bare?
Durante una serata nevosa, Charles Grimaud, esperto di fantasmi e illusionismo,
viene ucciso nel suo studio da uno sconosciuto che indossa una maschera. Alcune
persone vedono entrare l’uomo mascherato ma, dopo aver sentito lo sparo, non
vedono uscire nessuno. Inutile dire che la stanza viene trovata chiusa
dall’interno, con Charles agonizzante e nessuna impronta sulla neve fresca
intorno alla casa... Da dove è fuggito l’assassino? Un’altra persona viene
uccisa, apparentemente nello stesso istante del primo omicidio, in una via
londinese imbiancata dalla neve, ed anche in questo caso non ci sono tracce
sulla neve che riveste la città come un sepolcro. Sarà Fell dopo un tour de
force investigativo a dipanare i meccanismi usati dall’assassino per portare a
termine la sua opera. Non sveleremo il mistero, per non rovinare la sorpresa,
ma basti sapere che Le tre bare
fornisce la soluzione più brillante di tutto il genere.
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