Giornalista di cronaca nera dal fiuto infallibile e dalla penna acuminata, Lugli da qualche anno si è scoperto scrittore di razza e con Il carezzevole, L'adepto e Il guardiano (tutti usciti per Newton Compton) ha tracciato l'affresco di una Roma tentacolare e nerissima.
Gli abbiamo posto alcune domande sul suo ciclo di romanzi dedicato a Corvino... e ne è venuto fuori un ritratto originale e inconsueto dell'uomo e dell'artista.
Ne Il carezzevole, il primo libro in cui
compare il giornalista Corvino, il tuo protagonista si ritrova a fare i conti con
un serial killer. Ne L'adepto Corvino, ormai 50enne, si imbatte nella realtà
dei riti satanici. Nell’ultimo romanzo, Il guardiano, è alle prese con la setta
di un maestro di kendo. Il tuo alter ego vive tutte esperienze estreme e si ha
la sensazione tangibile che possa subire la fascinazione del male. Esiste
davvero una metà oscura in ognuno di noi, una parte che non conosciamo?
Si, Marco Corvino, fin dal suo esordio, subisce la
fascinazione del male assoluto, una sorta di "malattia" dell'anima da
cui non guarirà mai più. Credo, da studente di taoismo, che ognuno di noi abbia
una parte yin e una yang che si alternano di continuo in una sorta di
equilibrio dinamico. La metà oscura, nottura e segreta di Marco emerge con
maggiore o minore forza in ognuna delle sue avventure. Nella mia esperienza di
cronista di nera, iniziata nel 1975, ho visto moltissimi casi simili: omicidi
improvvisi e inspiegabili che sembravano generati da una incontrollabile
pulsione interiore. Non sto parlando di schizofrenici, ma di gente normalissima
che, all'improvviso, diventa una belva: il giudice che uccise il marito della
sua amante e lo seppellì cercando di depistare le indagini sulla mafia,
l'avvocato che stuprò una collega, la signora che fece fuori l'ex marito per
poi buttare il corpo nel Tevere, gli amanti diabolici di Riano e tantissime
altre vicende. Diciamo che Marco Corvino ha una forte predisposizione a saltare
il confine ma, finora, non lo ha mai fatto. In fondo, resta ancorato al suo
ruolo di giornalista che lo salva dallo sprofondare.
Il guardiano è largamente ispirato dalla tua passione per le
arti marziali. Com’è nata questa passione? Che cosa rappresentano per te
karate, judo, tai ki kung e wing tsun?
Ho iniziato a praticare le arti marziali
(lo judo) a 9 anni e ne sono rimasto incantato. Allora era uno sport poco
conosciuto e ne ho scritto nel romanzo L'istinto del lupo, che ha
una forte componente autobiografica. A 14 anni mi sono iscritto a una palestra
di Taekwon Do e ho dovuto smettere a 20, quando già combattevo in qualche
campionato italiano, per cominciare a lavorare a Paese sera. Poi, appena
possibile, ho ricominciato: karate fino a cintura nera e poi, da 20 anni, Wing
Tsun e Tai Ki Kung, una disciplina che pratico ogni giorno per un'ora e insegno
a pochi amici (sono diventato istruttore un anno fa con grande fierezza). Le
arti marziali, per me, sono un percorso di vita e se non avessi la passione per
il giornalismo e la scrittura ne avrei fatto sicuramente un lavoro. Passo ore a
guardare video di tutte le discipline da combattimento, non perdo un film di
qualità, leggo riviste specializzate e a volte partecipo a seminari assurdi
tipo "spada e daga medioevali" o "combattimento ravvicinato con
il coltello". I benefici psichici e fisici sono enormi ma le arti marziali
si praticano, essenzialmente, per la gioia di farlo, senza alcun fine
utilitaristico. Anche l'autodifesa, dopo i primi due anni, passa in secondo
piano. Al mio maestro Ming Wong qualcuno chiese a cosa serve il tai ki kung.
Risposta: a nulla. E' un paradosso taoista ma, come tutti i paradossi, contiene
molta verità.
Quando scrivi un romanzo conosci già la fine? Ti costruisci una
scaletta prima di affrontare la stesura dell’opera? Sei più istintivo o più
calcolatore nella costruzione dell’intreccio?
Quando inizio un romanzo ho solo una
vaga idea di quello che accadrà. Con Corvino, il tema centrale è quale sarà il
nucleo della trama: serial killer, riti satanici, arti marziali o... quello che
arriverà tra poco, insomma, il viaggio del protagonista. Non faccio scalette,
non penso neanche troppo all'intreccio che si sviluppa quasi da solo. Decido
giorno per giorno. E spesso i personaggi mi prendono la mano e mi portano in
qualche direzione che non avrei mai immaginato. Nel primo romanzo, La legge di
Lupo solitario, avevo in testa l'inizio e la fine, in mezzo il buio totale. Ci
ho messo 5 anni a scriverlo, poi ho affinato la tecnica e oggi sforno, in media,
un libro ogni cinque o sei mesi ma resto fedele alla tecnica
dell'improvvisazione. Spesso il mio lavoro mi fornisce spunti che finiscono
dritti nelle pagine del romanzo. Ho fatto un piccolo sondaggio personale tra
gli scrittori che ho conosciuto e ho scoperto che molti fanno come me... E io
credevo di essere originale.
La Roma del “ciclo di Corvino” è assai realistica e
forse per questo risulta più inquietante. Quanto conta
nell’attività di scrittore avere conoscenze dirette del mondo che si racconta?
Io penso che sia molto importante.
Hemingway diceva che per scrivere di un alcolizzato devi esserlo o almeno avere
un amico alcolista. Non so se è vero ma penso che in un noir la conoscenza
degli ambienti criminali, di quelli investigativi, dello sviluppo di
un'inchiesta e di una redazione di cronaca siano un punto di forza. Un elemento
che non basta ma aiuta. Molti libri di magistrati e poliziotti sono illegibili,
poi arriva De Cataldo e trasforma la sua esperienza in letteratura, voilà. Un
successo meritatissimo, almeno secondo il mio modestissimo parere. Per ogni
romanzo che scrivo, comunque, tento di documentarmi al meglio e spesso ricorro
all'aiuto di amici poliziotti o carabinieri. Credo che realtà e fantasia, in
ogni trama di successo, debbano intrecciarsi di continuo, in un gioco perenne
di Yin e Yang.
Sei d’accordo con le affermazioni di Jean-Claude Izzo secondo cui
il giornalismo d’inchiesta ha le armi spuntate e la “forma romanzo” può venire
in soccorso per rendere una denuncia sociale più esportabile e prendere di
petto le materie scottanti? Tocca davvero alla letteratura svelare la realtà
degradata delle nostre città?
Sono d'accordo. Il giornalismo
investigativo, in Italia, è fatto di carta anzi, di carte: le carte processuali
che vengono fornite da pm o poliziotti e pubblicate. I cronisti italiani, me
compreso, hanno pochissime armi per indagare veramente: i tempi della
controinformazione sono tramontati da un pezzo. La letteratura può supplire a
questa carenza di base anche se spesso rischia di debordare e esagerare. Penso
che oggi, più che nel romanzo, molte realtà scottanti vengano svelate dai
libri-inchiesta che spesso sono una bella forma di giornalismo investigativo.
Penso allo scrittore che va a vivere in un campo rom, si fa rinchiudere in un
centro di espulsione per extracomunitari o semplicemente, elenca i privilegi di
politici, medici, sindacalisti ecc...Ma per restare a De Cataldo, il suo
monumentale romanzo sulla banda della Magliana ha trovato tanti epigoni che,
alla fine, hanno descritto una storia criminale diversissima da quello che era
in realtà. Quindi il rischio di deformazione della realtà è sempre in agguato.
Che rapporto hai con il tuo eroe, Corvino? Come ti trovi a
scrivere letteratura seriale partendo da elementi fissi ineludibili?
Adoro Marco Corvino. Per me, è una sorta
di fratello ombra a cui affido anche qualche piccola rivincita sul mestiere che
faccio. Quanto alla letteratura seriale, è una gabbia e una sicurezza al tempo
stesso. Se sai che il personaggio e il suo ambiente funzionano, devi tenerne
conto per non scontentare il lettore ma, al tempo stesso, accompagnarli in un
lento percorso di evoluzione. Inizialmente, pensavo di fermarmi al Carezzevole,
è stato quasi un caso se Marco è sopravvissuto e ha potuto affrontare altre
avventure. Ora mi ci sono affezionato e credo che lo terrò in vita ancora per
un po' ma voglio evitare di cristallizzarmi su di lui. Prima o poi lo
abbandonerò, ma non adesso. Per Lupo, invece, non ho avuto problemi: dopo il
prequel ho decretato la sua uscita di scena anche se...mai dire mai. Questa è
la bellezza della letteratura rispetto al giornalismo: nulla è stabilito per
sempre, sei tu, l'autore, a decidere (oltre, naturalmente, ai lettori che sono
i veri arbitri e giudici per chiunque pubblichi qualcosa).
Questa estate c’è stata una forte polemica sugli editori che
avevano abbassato i prezzi dei libri. Cosa ne pensi dell’editoria low cost? Un
limite o un vantaggio offrire libri a prezzi più bassi?
Sono convinto che alla Newton Compton
spetterebbe un premio speciale dell'Unesco per aver abbassato i prezzi dei
libri, non solo i romanzi, mantenendo alto lo standard di qualità. Molti altri
editori sono stati costretti ad adeguarsi e questo è un risultato splendido. Ma
come si fa a lamentarsi del fatto che la gente non legge se per un romanzetto
qualsiasi devi sganciare 18 euro? E in nome di quale principio l'editoria deve
mantenere prezzi d'èlite? La Newton non è un'opera benefica: pubblica per
vendere e per guadagnare e questo la mantiene libera. Essere pubblicato proprio
da loro è stato un dono del cielo perchè, prima che autore, sono stato lettore
affezionatissimo anche per i prezzi scontati. Da ragazzo compravo i Millelire e
questo mi ha permesso di scoprire opere che forse non avrei mai letto. E credo
che con gli e.book, per forza di cose, i prezzi di copertina continueranno a
scendere. Se qualche autore strapagato o qualche editore blasè
storce il naso beh...affari suoi. Non sai la felicità di vedere la pallina
rossa col prezzo sotto i 10 euro sulla copertina dei miei romanzi.
A mio parere stile,
ambientazioni e villain dei tuoi romanzi hanno sfatato molti luoghi comuni sul
thriller italiano. Ma dove sta andando oggi il giallo nostrano? E’ cambiato
qualcosa nell’ultima generazione di scrittori?
Grazie del complimento, spero di aver dato un piccolo
contributo allo svecchiamento di certi clichet, primo tra tutti l'eterno
commissario sfigato in lite coi superiori burocrati... che noia. Sua Maestrà
Camilleri mi perdoni, lui è un'eccezione. Io credo che oggi ci sia una
generazione di giovani scrittori che partono dalla cronaca e ci sanno fare, se
ne fregano degli schemi e vanno per la loro strada. Penso a Roberto Costantini
di Tu sei il male (non è giovane ma ha esordito a 62 anni quindi lo
è letterariamente) o a Piergiorgio Pulixi di Una brutta storia o a
tanti altri meno conosciuti come Silvana Logozzo, cronista di razza e autrice
di uno splendido thriller tra Roma e Israele. Credo che il noir (scusa ma
detesto l'espressione giallo che secondo me riporta a quel grassone di Maigret
o a quella nonnina di Agatha Christie) si stia evolvendo: è più attento alla
cronaca, più focalizzato su personaggi e contesto e forse meno sull'aspetto
"chi è l'assassino?". E poi, azione, azione, azione. L'azione è
tutto, secondo me. Per imparare a raccontare una sparatoria, mi sono iscritto
al poligono, sono diventato tiratore e ho comprato una pistola. Esagerato?
Forse ma almeno evito di sparare... cavolate. Molti scrittori dell'ultima
generazione sono come me: si documentano, guardano la realtà della strada o dei
commissariati e hanno un'impronta più diretta, più cinematografica dei
predecessori. L'uso del presente storico e dei dialoghi serrati lo testimonia.
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