Evitiamo il clientelarismo, la
corruzione, lo spettro del fallimento di un’azienda pubblica. Diamo risorse
concrete al comparto cinematografico e televisivo. Per fare questo occorre
vendere la RAI e col ricavo di due miliardi di euro creare un sistema dell’audiovisivo
forte, moderno, provvisto di una Banca del Cinema e di un settore digitale
sviluppato. Non aspettiamo che la nostra azienda radiotelevisiva di Stato rischi
di chiudere o andare in bancarotta come l’ERT, la tv pubblica greca. Facciamo
valere la volontà popolare e il buon senso. Rispettiamo il referendum che aveva
imposto la trasformazione della RAI in Spa privata. Mettiamo in circolo nuove
energie per un cinema ed una televisione finalmente liberi.
Gentile Roberto Fico, Presidente della Commissione Vigilanza RAI,
Le scrivo in relazione alla grave crisi economica, ma anche culturale, in
cui versa l’intero reparto dell’audiovisivo. Mentre si celebrano i fasti di
Venezia, una intera categoria – quella legata allo spettacolo –
sta agonizzando. Gli interventi che prima dell’estate hanno richiesto registi
e professionisti del settore non serviranno a niente. Ripristinare i tagli del
FUS e il tax credit sarà come allungare di pochi giorni la vita di un
moribondo. Non c’è bisogno di rivitalizzare il mercato, ma di fondarne uno,
perché finora non c’è mai stato.
Occorre ripensare da capo l’intero sistema audiovisivo,
dalle fondamenta. Progettare fiction per un pubblico più giovane e storie più
adulte. Investire sul web, sui contenuti digitali e sulle energie di giovani film
maker che, seppure trascurati, stanno facendo di tutto per ottenere visibilità
da una casta miope e rinchiusa nei loro fortini. Puntare sulla qualità e
commerciabilità dei nostri lungometraggi, su idee cinematografiche di valore e
di respiro internazionale, su generi ormai bistrattati, su nuove modalità
distributive dei film.
Ma per fare questo, per una rivoluzione copernicana, dove si prendono i fondi? Come si salva una parte vitale dell’indotto nostrano
e si garantisce la sopravvivenza a tanti lavoratori e artigiani dello spettacolo?
Basterebbe rispettare la volontà popolare, che nel ‘93 si espresse a
favore della vendita della RAI, e con la privatizzazione dell’azienda sarebbero pronte risorse fresche da impiegare nel campo.
Subito. Un serissimo studio di Mediobanca ha stimato che la vendita del
servizio radiotelevisivo porterebbe nelle casse dello Stato 2,1 miliardi di euro.
Onorevole Fico, Le ricordo che sedici anni fa il 54,9% degli italiani ha
chiesto la privatizzazione della Rai. A quel tempo i quesiti referendari
lanciati dalla Lega prevedevano l'abolizione dei vincoli che facevano della Rai
una società per azioni “a totale partecipazione pubblica”. Per cosa si votò con
successo? Per eliminare il servizio di Stato. Era maturata la consapevolezza
che per svincolare l’azienda dai partiti l’unica soluzione era venderla a
soggetti privati. Che resta ancora oggi verità sacrosanta. A 16 anni dal
referendum, però, la decisione popolare è rimasta lettera morta, esattamente
come il referendum sul finanziamento ai partiti. Ma mentre nel secondo caso
Beppe Grillo ha fatto una questione di vita e di morte, nel primo c’è stato un
silenzio assordante. Che perdura. Il Movimento 5 stelle ha chiesto durante la campagna
elettorale la vendita di due canali su tre e il mantenimento di un unico canale
senza pubblicità con finalità da servizio pubblico, sul modello della BBC. Poi
il movimento ha ottenuto la prestigiosa poltrona di vigilanza RAI, occupata da
Lei, Esimio Onorevole.
Ma di questa battaglia, per vendere la RAI e ottemperare
ai clamorosi risultati di un referendum, non è rimasta alcuna traccia.
“Con la privatizzazione ci
guadagnerebbe la libertà di stampa, il pluralismo dell’informazione, la
professionalità degli ottimi giornalisti RAI”, ha scritto Pier Luigi
Battista.
Oltre a sbloccare un settore e togliere legacci ad una stampa spesso
imbavagliata, si avrebbero benefici anche per le casse dello Stato. C’è
bisogno di dire che la RAI è una macchina mangia-soldi affetta da elefantiasi? Un debito di 360 milioni di euro ed una
gestione opaca dei soldi pubblici, finora intrattenuta, hanno portato a diverse
inchieste giudiziarie che stanno passando al setaccio l’azienda di Stato. Oggi RAIFICTON spende 16 milioni di euro per Don Matteo 9 e per la nuova stagione di Un Medico in Famiglia, mentre perde introiti
pubblicitari e una buona fetta di ascolti. In un nutrito dossier la Corte dei
Conti ha certificato sprechi da 62 milioni di euro con costi che non sono giustificabili
per diversi programmi tv. Già nel 2009 un libro di Pardo Denise, La piovra Rai, denunciava le storture di un'azienda che segue logiche di opportunismo e certificava l’esistenza di una “casta” in cui cariche e
poltrone sono sproporzionate rispetto alle necessità. Lo sconcertante quadro raccontato nel 2009 non è cambiato molto negli ultimi tre anni.
E che dire poi di RAICINEMA? Società creata nel 2000 per razionalizzare
gli acquisti di film da parte della tv, ha cominciato a gestire fiumi di
denaro senza la minima trasparenza. Nessuno sa perché nei
finanziamenti di RAICINEMA viene preferito un film di Virzì o di Bellocchio
rispetto ad un’opera prima e i cittadini italiani ignorano le oscure motivazioni
che portano a sostenere economicamente una sceneggiatura rispetto ad un’altra.
I criteri per la selezione di nomi e progetti restano criptici e spesso
risultano autolesionisti per la stessa azienda produttrice.
Più recentemente RAI
CINEMA è stata anche oggetto di una inchiesta della Procura di Roma per presunte
irregolarità legate agli acquisti dei diritti tv. Dal 2003 ad oggi ha speso 1,3
miliardi di euro per acquistare i diritti per film e serie televisive. Ma la
Guardia di Finanza sospetta che parte di questo fiume di denaro sia
stato utilizzato per comprare pellicole a prezzi gonfiati, mediante l'emissione
di false fatturazioni da parte di società di intermediazione. Il tutto al fine
di evadere il fisco ed elargire cospicue "stecche", sotto forma di
consulenze, ai dirigenti coinvolti.
Ora abbiamo un’occasione irripetibile per disfarci di questo costoso
carrozzone politico e burocratico che succhia soldi dalle mammelle dello Stato
e da quelle dei contribuenti che pagano il canone per un miliardo e mezzo all’anno.
Che succederebbe se facessimo valere le più elementari norme democratiche ed
evitassimo il fallimento di una costosa azienda pubblica? Che accadrebbe se,
come indicava un lontano referendum popolare, togliessimo viale Mazzini dalle
grinfie del Tesoro? Gli analisti di Mediobanca hanno valutato positivamente gli effetti di una privatizzazione, anche sul lungo periodo, nonostante
il periodo di crisi dei media ed il valore al netto dei debiti sia basso.
L'incasso stimato è inferiore al fair
value, calcolato in 2,47 miliardi di euro, applicando i multipli dei
concorrenti o della media di mercato ai tre business del gruppo (tv, frequenze,
torri). Questo perché dal valore degli asset andrebbe sottratto il debito netto
che a fine 2012 ammontava a 360 milioni […] La profittabilità della Rai è ben
inferiore a quella della media del settore, anche se questo gap sarebbe
compensato considerando un premio di controllo in caso di vendita.
Si potrebbe disegnare così uno scenario nuovo, eliminare il rigido
duopolio, avere più soggetti economici nello stesso settore, e ottenere come
effetto finale quel sano dinamismo e quel clima di libera concorrenza che è
sempre mancato. Se nella partita degli acquisti entrerà De Benedetti (gruppo
Repubblica-l’Espresso), che possiede frequenze nazionali, oppure un investitore
straniero con un know how specifico nel settore, francamente non importa a
nessuno, purché siano liberate risorse e sia ricostruita un canale generalista,
un secondo di intrattenimento più leggero, e magari un terzo di informazione e reportage,
in mano a soggetti privati seri e agguerriti.
In un articolo apparso su “Repubblica” del 15 giugno 2011, De Nicola, professore di
diritto commerciale alla Bocconi, ha spiegato con competenza perché bisognerebbe
vendere la RAI, prima di essere costretti a chiuderla, come ha fatto il governo
greco con la radiotelevisione pubblica ERT.
Nell’ambito del programma di
privatizzazioni imposto ad Atene, anche la stazione tv non si salva. Verrà
ristruttura in vista della vendita e saranno riassunti solo i dipendenti
indispensabili e che accetteranno nuovi contratti di lavoro meno onerosi per
l’azienda. ERT era il classico buco nero che costava ad un paese piccolo e
impoverito come la Grecia 300 milioni di euro l’anno di sussidi pubblici (in
linea con l’Italia, dove, con una popolazione quasi 6 volte superiore, il
canone frutta alla Rai poco più di 1,7 miliardi, essendo però il reddito medio
dei greci inferiore al nostro). Inoltre, gli sprechi dell’emittente erano
diventati leggendari e quindi il governo, per tagliare il nodo gordiano, ha
deciso di prendere una misura draconiana. Ebbene, se poniamo lo sguardo sulle
vicende di casa nostra, forse potremmo prendere delle utili lezioni da quanto
sta succedendo nella nazione culla della civiltà occidentale. La prima è che
anche in un paese dove la tradizione dell’intervento statale in economia è
forte e radicata culturalmente, quando le circostanza lo impongono, vengono
smantellati i tabù.
Onorevole Fico, pensi a quanti benefici si otterrebbero. Si arriverebbe a
togliere il canone RAI, una tassa onerosa per i cittadini. Si eliminerebbero sperperi pubblici. Si toglierebbero ai politici i
loro feudi, che sarebbe un po’ come togliere l’acqua ai pesci. Si farebbe
decollare un modello di sviluppo diverso, virtuoso, con una vigorosa concorrenza
di mercato. I padroni del palinsesto tornerebbero ad essere gli
utenti, e non i partiti che da 20 anni si spartiscono i posti.
Scomparirebbero gli imprenditori legati a filo doppio alla politica e
morirebbe quel finto capitalismo, malato e drogato, che ha contraddistinto cinema
e tv. E con i nuovi flussi di denaro si potrebbero fare cose magnifiche
per far ripartire produzioni cinematografiche e televisive veramente innovative
e originali, finalmente competitive rispetto al resto dell’industria mondiale.
E’ possibile far rispettare la volontà di un popolo bistrattato e illuso? Si può prendere una soluzione di buon senso che in un
colpo solo risolva tutti i problemi dell’audiovisivo? E’ pensabile, in un
momento di crisi economica e tagli tollerare che vengano sperperati
centinaia di milioni di euro? Dobbiamo aspettare che l’azienda radiotelevisiva
fallisca, come ALITALIA, per inventarci salvataggi improbabili e caricare sulle
spalle degli utenti altre odiose tasse?
Io credo che il Movimento 5 Stelle debba una risposta a tutti questi
quesiti, che le categorie dei lavoratori dello spettacolo, gli spettatori
cinematografici e televisivi e tutti i cittadini attendono con ansia azioni concrete
e utili.
Non siete stati mandati in Parlamento a litigare sugli scontrini, a bacchettare
la presidente della Camera, a rallentare il corso di una legge, a lanciare ultimatum
ai giornalisti o a indire l’ennesimo Vaffa Day. No, avete ricevuto
un’investitura popolare per rappresentare le istanze di una cittadinanza giustamente
arrabbiata. Che chiede fatti, non chiacchiere. Che vorrebbe il rispetto di una
decisione espressa in larga maggioranza nel ‘93. Che implora che l’economia riparta e l’Italia
diventi un paese moderno, con una sua televisione ed una cinematografia degna di questo nome.
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