IL PERIODO MUTO
La particolare
tipologia letteraria dei polizieschi è tale da poter essere trasposta senza nessuna forzatura nel cinema di genere. I canovacci ricchi di delitti e misteri sono la
materia ideale per le prime pellicole mute.
Conquistano
la notorietà La scala a chiocciola
(1915) dall’omonimo romanzo della Rinehart, Il
caso delle due cugine (1923) dal libro della Green, tre versioni tratte dal
romanzo di Leroux Il mistero della camera
gialla e ben dodici episodi che hanno come protagonista un personaggio
letterario creato dalla baronessa Emmuska Orczy, “il Vecchio”, investigatore
che risolve i casi senza spostarsi dalla propria abitazione.
In
Francia l’ispettore Lecoq, il poliziotto creato da Gaboriau, è l’eroe di un
film del 1914 e del ‘32, mentre The big
bow mystery di Israel Zangwill fornisce nel ‘28 lo spunto per The perfect crime, firmato da Bart
Bennon. (Lo stesso libro di Zangwill conoscerà un non trascurabile remake
diretto da Don Siegel, La morte viene da
Scotland Yard nel 1946, con Peter Lorre e Sidney Greenstreet).
Commentate
da una musica accattivante, le azioni dei personaggi semoventi attraggono folle
di ogni paese. Attraverso l’uso del montaggio alternato e dei movimenti della
cinecamera, l’estetica cinematografica esalta i punti di forza del racconto giallo,
anche se le didascalie rallentano la fruibilità della storia e certe
limitazioni espressive del muto talvolta non consentono alle immagini di
riprodurre un’opera come se fosse il mondo reale.
Nella
fiorente industria americana si afferma una produzione schematica e legata a
canoni rigidi, che fornisce un antidoto contro la paura del domani e le
preoccupazioni del salario da parte del pubblico di massa e costituisce per lo
spettatore medio una sorta di fuga dai problemi quotidiani.
A sua
volta, il romanzo viene via via influenzato dall’estetica audiovisiva, dal
dinamismo delle scene e dal montaggio “alla Griffith”, anche perché sempre più
spesso gli scrittori hanno un occhio su quanto succede a Hollywood e sono
assorbiti dalle sue strutture produttive.
IL SONORO
Nella
seconda metà degli anni Venti l’avvento del sonoro allarga il mercato
hollywoodiano e completa la “verosimiglianza” dell’illusione filmica
potenziandone il grado di realismo. La scoperta tecnologica crea una dimensione
spettacolare in cui immagini e parlato si integrano perfettamente. A risultarne
avvantaggiato è il poliziesco d’azione, fatto di inseguimenti e sparatorie.
Negli studios americani i film acquistano una
fisionomia precisa e sono catalogati in base ai generi che ripetono formule di
successo. Tra questi non possono mancare il giallo e il thrilling, realizzati in serie, con grande dispendio di mezzi, divi
di successo e una smagliante riuscita tecnica. Nel frattempo il pubblico
statunitense trova nella sala di proiezione un modo piacevole per trascorrere
il tempo libero tanto che, negli anni assai difficili della Grande Depressione
e del New Deal di Roosevelt, il film sostituisce il libro come prodotto di
consumo e in tutto il mondo diventa il divertimento preferito, anche per il
minore impegno richiesto nella sua ricezione.
Come
segnala Michael Pointer nel suo The
Sherlock Holmes File, le opere di Conan Doyle contano centoquindici
trasposizioni prima dell’avvento del sonoro. Si va dalla commedia Sherlock Holmes Baffled (1903), a Sherlock Holmes Solves the Sign of the Four
(1913), passando per lo Sherlock Holmes
(1922) interpretato dal carismatico John Barrymore, fino alla serie di
quattordici episodi che tra il ’39 e il ’46 ha come protagonista
l’intellettuale Basil Rathbone e la fragile bellezza di Ida Lupino come miss
Brandon. Americani, danesi, italiani, tedeschi, ungheresi, francesi e inglesi
prendono a prestito il celebre mito di Holmes, detective insuperabile, e ne
sfruttano la popolarità disegnando con credibilità psicologica e humour le
avventure di Holmes. Bisognerà attendere Vita
privata di Sherlock Holmes (1970)
e Senza indizio (1989) per vedere l’investigatore
londinese scendere dal suo trono e messo alla berlina in modo irriverente.
IL MONDO DEI FUORILEGGE
Non è
meno utilizzato l’alter ego criminale di Holmes, il suo corrispettivo nel mondo
dei ladri, il famigerato Arsenio Lupin. La carriera cinematografica del ladro
gentiluomo inizia ufficialmente nel 1917 in una serie di film muti americani e
francesi. Nel 1919 la Paramount fiuta l’affare e produce The Teeth of the Tiger con David Powell nel ruolo di Lupin. Negli
Stati Uniti vedono alla luce Arsène Lupin
(1932) di Jack Conway con John e Lionel Barrymore, Arsène Lupin Returns (1938) con Melvyn Douglas, Warren William e
Virginia Bruce, Enter Arsène Lupin
(1944) con Charles Korvin e Ella Raines.
Prima
di Lupin, un altro fuorilegge uscito dai romanzi conquista la fama in Europa e nel
resto del mondo. Nel 1913 il regista francese Louis Feuillade ricava dai libri
di Allain e Souvestre il ciclo di Fantomas,
cinque episodi incentrati sull’avventuroso criminale in un felice connubio tra
realismo e fantasia. Il successo è immenso, in particolare in Russia. Le gesta
di Fantomas attirano il favore di molti intellettuali francesi, tra cui Apollinaire,
Aragon, Artaud e Cendrars. Negli Stati Uniti contribuiscono a creare la moda
dei film “a puntate”.
La
serializzazione consente di sfruttare lo stesso eroe in molteplici avventure.
Nel caso di un primo successo, si può contare su uno stile sicuro e
accettabile, su un filone da cui pescare un’altra storia, su determinati cliché
riconoscibili. I personaggi che ricorrono di film in film rassicurano e fidelizzano
il pubblico delle sale. E non è da sottovalutare, come precisa Abruzzese nei
suoi studi sul linguaggio di massa, «la natura comunicativa e cognitiva degli
stereotipi, in quanto forme collaudate di riconoscimento per il pubblico e di
interazione tra testo e destinatario».
PHILO VANCE E CHARLIE CHAN
Negli
anni Trenta quel che appare «fotografabile e presentabile sugli schermi» sono
gli investigatori alla Sherlock Holmes, preferibilmente ancora più patinati e
aristocratici del loro capostipite. L’industria filmica individua i frammenti
più significativi della sua epoca, il visibile
di una società e, secondo la nota definizione di Sorlin, fa venire alla luce
sugli schermi «ciò che i fabbricanti di immagini cercano di captare, e ciò che
gli spettatori accettano senza stupore».
Un
personaggio che si presta ad essere replicato e vanta enormi potenzialità
commerciali è il raffinato Philo Vance, raccontato in ben dodici avventure dal
romanziere S.S. Van Dine. Gli aspetti più antipatici del detective mondano e
altezzoso sono attenuati grazie alla rappresentazione realistica del medium ed alla maggiore concentrazione
del pubblico sul dipanarsi dell’intreccio. Nel 1929 The Canary Murder Case, tratto dal romanzo La canarina assassinata, segna lo spartiacque tra il cinema muto e
sonoro, dopo mediocri film parlati. Diretto da Malcolm St. Clair e, per la
versione sonora, da Frank Tuttle, il film è interpretato da William Powell
nella parte di Vance e da Louise Brooks, ex Ziegfeld Girl e Scandals Girl, nel
ruolo di una star di Broadway. The Canary
Murder Case viene girato muto e poi sonorizzato. Louise Brooks, diva del
periodo muto, si rifiuta di incidere il doppiaggio, affidato a Margaret
Livingston. La conseguenza è che la Brooks non lavorerà mai più nel sonoro,
perché Hollywood non perdona. L’atletico e prestante Powell invece continua a
impersonare Vance in The Greene Murder
Case (1929), The Benson Murder Case
(1930) e ne Il pugnale cinese (1933).
In quest’ultimo Michael Curtiz esibisce la sua regia pirotecnica, con obiettivi
deformanti, aperture a ventaglio, tagli di montaggio, cambiamenti di fuoco
all’interno di una stessa inquadratura e dettagli di oggetti che finiscono per
essere più importanti dell’elemento umano. A prestare il loro
volto a Vance seguono con fortune alterne Basil Rathbone in The Bishop Murder Case (1930), Paul
Lukas in The Dragon Muder Case
(1934), Warren William in The Casino
Murder Case (1935), Night of mistery (1937)
e The Gracie Allen Murder Case (1939).
Infine ne raccolgono l’eredità William Wright in Philo Vance Returns (1947) e Alan Curtis in Philo Vance’s Gamble (1947) e Philo
Vance’s Secret Mission (1947).
Molti
detective sono immortalati nei circuiti del prodotto di evasione, in cui viene proposto
un intreccio rassicurante con toni semiseri, talora ironici e a tratti
magniloquenti. Ispirato ai Delitti della
rue Morgue, nel ‘32 Dupin è interpretato da Leon Waycoff-Ames e il
possessore dello scimmione omicida si trasforma nella graziosa Bela Lugosi. Poi
è la volta del sacerdote investigatore de L’innocenza
di Padre Brown che arriva nelle sale grazie a Edward Sedgwick con Father Brown, Detective (1934). La
Warner Bros acquista i romanzi di Stanley Gardner e fa dell’avvocato Perry
Mason un eroe popolare ne Il lupo
scomparso (1934), The Case of the
Curious Bride (1935), The Case of the
Lucky Legs (1935), L’uomo ucciso due
volte (1936), tutti con Warren William come protagonista. Ricardo Cortez
incarna Perry Mason ne Il mistero del
gatto grigio (1936), ed a questi succede Donald Woods ne La vittima sommersa (1937).
Tra le
pellicole più note derivate dal prolifico Wallace ci sono quella interpretata
da Gibb McLaughlin, Mr Reeder in room 13
(1938), e The mind of Mr Reeder
(1939) con Will Fyffe, entrambe su un ex collaboratore di Scotland Yard, Mr
Reeder.
La fortunata
creatura di Ear Derr Biggers, il flemmatico Charlie Chan, lontano dall’essere
un super-man alla Vance, annovera quarantasette lungometraggi di grande
impatto. Le virtù antieroiche del poliziotto asiatico, cortesia, pazienza,
umorismo, lentezza, umiltà e prudenza, sono quelle di un uomo comune e forse
anche un po’ mediocre, e lo rendono il simpatico beniamino di mamme e bambini. The house without a key (1926), con
George Kuwa, è la prima realizzazione tratta dal romanzo Charlie Chan e la casa senza chiavi. Nel ’31 La crociera del delitto e Il
Cammello nero iniziano la serie che diventa universalmente popolare con
l’interpretazione paciosa e sorniona di Warner Oland, attore di origine svedese
che per sedici volte impersona Chan nelle sue avventure in Egitto, Montecarlo,
Shangai e Parigi.
Morto Oland, la 20th Century Fox scrittura Sidney Toler che a
partire da Charlie Chan in Honolulu
(1939) interpreta ventidue film fino alla sua morte nel 1947. La serie continua
con la Monogram che produce sei film interpretati da Roland Winters, da L’anello cinese (1947) a Il drago volante (1949). L’impronta di
esotismo che il film riceve dall’ambientazione regala un paesaggio pittoresco
come cornice rarefatta, un ingrediente in più per lo spettacolo, che porta
lontano lo spettatore, in uno spazio estraneo. Una sorta di parco giochi dove
tutto può accadere e che, per traslato, conserva l’idea che i luoghi familiari
restino sicuri.
LE REGOLE DEL GENERE
Intanto
le case cinematografiche si premurano di stabilizzare le regole di scrittura,
così come la scelta di temi e di argomenti. La standardizzazione allinea
prodotti fortemente omogenei e detta formule fisse. In ottemperanza al “Codice
Hays”, che specifica cosa sia considerato accettabile moralmente, il giallo
costituisce un modello culturale non ansiogeno, che evita la sessualità, premia
i buoni e termina di rigore con il sacrosanto castigo dei cattivi. La narrativa
è un serbatoio inesauribile di storie da riprodurre con sfarzo dal cinema. Che
conquista finalmente una sua autonomia linguistica. In breve Hollywood si
appropria del genere e lo vampirizza, mettendo in scena una precisa geografia,
un paesaggio bene illuminato e mai opaco, un approccio mitologico ed un mix di
magia ed eleganza.
Nel
saggio Adventure, Mystery and Romance:
Formula Stories as Art and Popular Culture, John Cawelti sostiene che siamo
di fronte a strutture anonime e ripetitive, ma ribadisce che una cultura non ha
bisogno solo di “invenzioni” che assicurino un cambiamento. Al contrario le
“convenzioni” garantiscono la stabilità e permettono di condensare le
preoccupazioni sociali di un dato periodo in strutture narrative concrete,
rappresentazioni che incorporano archetipi universali e non smettono di parlare
degli uomini. Secondo Cawelti, il cinema di genere offre una sintesi dei valori
di una società e svolge una funzione simile ai rituali. E’ un intrattenimento
basato su regole conosciute da tutti, e in questo senso assume il ruolo del
gioco. E’ «un modo attraverso cui gli individui tirano fuori certi bisogni
inconsci o repressi, o esprimono in una forma simbolica i motivi latenti cui
devono dare corpo ma a cui non possono far fronte direttamente», e sotto questo
aspetto il film assomiglia a un sogno ad occhi aperti.
I
gialli degli anni Trenta rappresentano la dimensione rituale, ludica e onirica, e
costruiscono piano piano la Tradizione, intesa come sistema di aspettative
dell’habitué che si siede in sala
avendo in testa una “educazione” derivata da tutti i film che ha visto. Nei
polizieschi hollywoodiani l’ambientazione lussuosa sa di cartapesta e il
ripristino della legalità e la sconfitta dei delinquenti suonano scontati. Non
sono rare le strizzate d’occhio agli spettatori da parte del divo, che ci
ricorda di essere di fronte a uno spettacolo di intrattenimento. A questo
proposito il critico Michael Wood annota nel saggio Il cinema e l’America: «Se non intendono turbarci, i film lasciano
che questo paradosso conservi il suo normale equilibrio: una forte sensazione
di realtà bilanciata da una tenue consapevolezza che è tutto confezionato. Noi
crediamo ai nostri occhi, ma non in modo assoluto».
Esemplare
il lavoro di revisione operato dallo studio
system su L’uomo ombra (1934),
tratto dal romanzo di Hammett. Le modifiche apportate al testo hard-boiled lo virano su toni
giallo-rosa, estranei all’originale, e ne fanno una commedia brillante
incentrata su una coppia di miliardari che conducono un’attività investigativa
per gioco. Nick e Nora Charles, coniugi snob amanti della baldoria e dell’alcol,
sono impegnati ad investigare sulla scomparsa di uno scienziato e sugli omicidi
che ne seguono. Le intuizioni brillanti e i colpi di scena lasciano spazio a
gustose scenette familiari e scoppiettanti conversazioni tra le star William
Powell e Myrna Loy. All’epoca protagonisti di scadenti film di serie B, Powell
e la Loy si affermano come una delle coppie più amate, nelle commedie
sofisticate. La serie da L’uomo ombra (1936)
continua sino a Il canto dell'uomo ombra
(1947).
IL CASO CHRISTIE
Quanto
ad Agatha Christie, suona strano che in questo periodo i grandi studios di oltreoceano non si
interessino più di tanto alla “regina del giallo”. E’ l’Europa il continente
che guarda con maggiore benevolenza alla prolifica Christie. Dal romanzo L’avversario segreto, una spy-story più
che un giallo, il tedesco Fred Sauer ricava Die
abenteur (1928), e nello stesso anno in Germania Julius Hegen dirige The passing of Mr Quinn. Ma è
altrettanto sintomatico che in Inghilterra uno dei primi film sonori sia Alibi (1931), di Leslie Hiscott, come se
il cinema anglosassone dotato di parola emettesse i suoi primi vagiti
attraverso un’opera della Christie, e sul piano dei risultati il lavoro di
Hiscott sul testo de L’assassinio di
Roger Akroyd è abbastanza apprezzabile. Nel 1934 l’attore Austin Trevor
veste i panni di Poirot nella sua prima riduzione cinematografica, nel
calligrafico Lord Edgware dies, diretto da Henry Edwards e
desunto dal romanzo Se morisse mio marito.
Nel
1937 una major americana produce L’oro
del supplizio girato da Rowland Lee con scarso successo. Nel 1945 viene
affidato a René Clair, espatriato in America dalla Francia, la direzione di Dieci piccoli indiani. Clair non sembra
a suo agio con le atmosfere inquietanti del romanzo e gli attori non sono indimenticabili.
Il film riprende in modo fedele la trama del libro, salvo che nell’happy end. Dieci persone, che non si conoscono
tra di loro, sono invitate a trascorrere un fine settimana su un’isola nel
Devon. Gli ospiti cominciano a morire, uno dopo l’altro, ma due di essi
decidono di fidarsi uno dell’altro e in virtù della loro alleanza si salvano
smascherando il vero ideatore e organizzatore degli omicidi.
Hollywood
nutre una profonda diffidenza verso Agatha Christie e, viceversa, la scrittrice
non ama la volgarità della Mecca del Cinema, stando alle sue dichiarazioni negli
anni Sessanta: «Per anni mi sono tenuta lontana dai film, perché mi causavano
troppi problemi. Poi vendetti i diritti alla MGM sperando che venissero usati
per la televisione. Ma preferirono i film. Terribile!» Ecco perché risulta
tardiva la riscoperta della giallista, con le pellicole Poirot e il caso Amanda (1966) e il notevole Assassinio sull’Orient Express (1974), girato da Sidney Lumet con Albert
Finney Guy, mentre sarà più amato dal pubblico il garbato Poirot interpretato
da Hamilton e poi da Ustinov.
IL GIALLO IN FRANCIA
Un
posto a parte meritano le esperienze francesi, di grande spessore psicologico e
con un fondo malinconico. La macchina del cinema d’oltralpe non si lascia
scappare i romanzi di Simenon. Si succedono Les
Inconnus dans la maison (1942), diretto da Henri Decoin, Il viaggiatore d’Ognissanti (1943)
tratto dal romanzo Il viaggiatore del
giorno dei Morti e diretto da Louis Daquin con Assia Noris e Serge
Reggiani, Panico (1946), diretto da
Julien Duvivier, La Marie du port (1950),
diretto da Marcel Carné, e Sangue alla
testa (1956), diretto da Gilles Grangier con Jean Gabin e Georgette Anys.
Maigret
arriva in America con l’aria ferita ed enigmatica di Charles Laughton ne L’uomo della Torre Eiffel (1950),
diretto da Burgess Meredith. Più tardi Simenon fornisce soggetti per Claude
Autant-Lara, Jean-Pierre Melville, Bertrand Tavernier, Claude Chabrol, Pierre
Granier-Deferre, Serge Gainsbourg e Patrice Leconte.
Uno dei
migliori interpreti di Simenon resta però Jean Renoir. Il suo La notte dell’incrocio (1932) tratto dal
romanzo Il mistero del crocevia, vede
Pierre Renoir nel ruolo di Maigret. Il cineasta francese rifiuta la
tradizionale divisione di buoni e cattivi e sviluppa un discorso personale
basato sul naturalismo poetico e su una visione tragica della vita. L’angelo del male (1938), ideato dal
romanzo omonimo di Zola, approfondisce questo discorso, sfumando le
implicazioni sociologiche del testo ottocentesco. La storia del ferroviere
alcolizzato, Jean Gabin, sedotto dalla perfida e sensuale Simone Simon, che lo
vuole spingere all’omicidio, fonda le basi del cinema noir in terra francese, caratterizzato da una materia torbida, una
narrazione coinvolgente ed una dimensione epica dove la malattia della passione
porta ad un destino spietato.
HITCHCOCK: IL REGISTA CHE SBARAGLIA
L’autore
europeo che si impone all’attenzione del pubblico e rivoluziona gli schemi
della letteratura, in un rapporto di osmosi, scambi e prestiti tra codici
linguistici, è l’inglese Alfred Hitchcock che sa introdurre nei film un elemento
di suspense attraverso i momenti di
“attesa”, le analisi dettagliate di ambienti, un clima angoscioso che produce
la sensazione che qualcosa di irreparabile sta per accadere.
In Gran
Bretagna Hitchcock ottiene i diritti per un adattamento del romanzo di Marie
Adelaide Lowndes sui delitti commessi da Jack lo Squartatore, ma Il pensionante (1927) stravolge la base
romanzesca e sviluppa il tema che sta a cuore a Hitchcock, quello
dell’innocente ingiustamente accusato. Il successivo L’uomo che sapeva troppo (1934)
nasce dalla lettura dei romanzi polizieschi di Sapper, il cui protagonista,
un gentiluomo abile e freddo, ispira a Hitchcock il personaggio chiave del
film, un comune cittadino coinvolto in un complotto internazionale.
Il club dei trentanove (1935) è basato sul romanzo I trentanove scalini di John Buchan. Nel
film sono mantenuti gli ingredienti del terrorismo e dello spionaggio, ma
vengono creati ex novo elementi
sentimentali e romantici. Il cineasta inglese ammira Buchan e ammette di
esserne stato influenzato. «Quel che mi piace di Buchan è qualcosa di
profondamente britannico, che in Inghilterra chiamiamo understatement. E’ un modo di presentare avvenimenti drammatici con
un tono leggero». Estremamente disinvolto verso il concetto di verosimiglianza,
Hitchcock si serve delle scene divertenti e drammatiche del romanzo, tagliando
i momenti di transizione, al fine di preservare a qualsiasi costo l’emozione.
«Ma che
cos’è in realtà il suspense? – dichiara il maestro del brivido. – Io sceglierei
la definizione più semplice: in una storia, il suspense è quella caratteristica
che vi mette voglia di continuare a leggerla per sapere cosa succede dopo.
Naturalmente, sulla base di questa definizione qualsiasi buon racconto contiene
l’elemento suspense. Una vicenda d’amore può essere a suspense. Ci sarà il
lieto fine? Anche una storia d’alpinismo può essere a suspense. Il protagonista
raggiungerà la vetta, oppure scivolerà e precipiterà sopra una roccia?»
Nessun commento:
Posta un commento
Commenta...