Finalmente una storia
che non è commediola da fumetto o racconto
intellettualoide. Incalzante, sincero,
coinvolgente, il film di Ciro De Caro diventa un caso nazionale.
Si ride, si
piange, ci si diverte. Attori strepitosi, messinscena essenziale,
canovaccio straripante che fa della militanza (anti-ideologica e viscerale) una
bandiera di cui andare fieri.
Un plauso particolare
all’intensità interpretativa di Valerio Di Benedetto e Sara Tosti.
Il successo della
pellicola a zero budget porta a ripensare i modi di produzione e distribuzione e costringe la Casta a fare i conti con la
propria coscienza (sporca).
Ciro De Caro mostra una esclusiva attenzione per le “genti
meccaniche e di piccolo affare”, per dirla col Manzoni, e intesse un racconto
gustoso, palpitante e disincantato sulla generazione under 40 che naviga a vista, a metà tra il free cinema inglese e lo stile di un Dino
Risi.
Le riprese del lungometraggio, costato 15 mila euro, sono durate solamente 11
giorni. Un vero miracolo, come sa chiunque abbia frequentato un set cinematografico.
La trama, abbastanza semplice, si sofferma sulle disavventure
di un attore squattrinato, le difficoltà della compagna che è una borsista universitaria, dell’amico
pusher e della sorella massoterapista.
“Io voglio fare un lavoro che però non posso fare”, dice con disarmante
sincerità il protagonista, che ha compreso con acida rassegnazione come l’ambiente
dello spettacolo lo stia tagliando fuori e forse non lo accetterà mai.
Valerio Di Benedetto è perfetto in quella parte, e chissà che non ci abbia riversato un suo vissuto autobiografico. A fargli da spalla il vulcanico e
bravissimo Christian Di Sante, una più misurata Rossella D'Andrea ed una sensuale e illuminante Sara Tosti.
La regia fa di necessità virtù e rinuncia al montaggio interno
riducendosi talvolta a camera fissa. Quello che più conta è l’urgenza
drammatica, è mettere al centro delle inquadrature le emozioni della storia e le
interpretazioni di un cast eccezionale. Peccato solo per il carattere un po’
troppo patetico del protagonista ed una svolta narrativa poco giustificabile
nell’economia del racconto. Dettagli, però. Perché, si diceva, che Spaghetti story è una autentica
rivelazione e rappresenta una boccata di ossigeno in mezzo a tanto piattume che
si vede in giro.
A De Caro interessa unicamente la storia degli umili e dei
vinti, di fronte alla quale il regista non si pone come uno scienziato che analizza
i fatti, ma prova compassione per quanto accade ed è sempre schierato dalla
parte dei personaggi.
Costretti dagli eventi, gli eroi di questa commedia amara si
muovono come insetti in una vischiosa ragnatela, lottano contro l’immobilismo psicologico
e sociale e sono messi con le spalle al muro dalla vita. Ma proprio quando
tutto sembra andare a rotoli, nella totale incertezza del futuro, la
solidarietà si rivela il valore più grande e c’è ancora la possibilità di
sognare, lo spazio per dimostrare di essere uomini e riprendersi in mano la
propria esistenza.
Per inciso, un dato rilevante investe anche l’aspetto
produttivo e distributivo, il fare cinema e la sua fruizione in un paese dove
ti viene somministrato il cine-panettone, il cine-drammone impegnato e la
cine-commedia disimpegnata come le pillole colorate dei medicinali ai pazienti
di un ospedale. Spaghetti Story esce
dal clima di omologazione culturale dilagante e sfida ad armi pari prodotti che
sono costati cento volte tanto.
Per la sua carica satirica e partecipativa, potrebbe ricordare ad
alcuni amanti del vintage Ecce bombo,
con un esercizio più lucido della regia ed un maggiore senso dello spettacolo
rispetto al cult di Moretti. Per nostra fortuna Ciro è meno intellettuale e
politico del Nanni nazionale. Ciro è un istintivo, un grintoso, un appassionato
del suo mestiere e un innamorato della vita.
C’è da scommettere, per nostra fortuna, che questo film
fornirà al regista e a tutti quelli che vi hanno preso parte il passaporto per
realizzare progetti meno poveri e più impegnativi.
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